lunedì 1 agosto 2011

lunedì 10 gennaio 2011

Notizie dal futuro #1

15/05/2012

ROMA - Finalmente approvato, dopo le numerose polemiche degli ultimi mesi, il controverso pacchetto di provvedimenti volto a sostenere e rilanciare le imprese. "Si tratta di un decreto fondamentale e rivoluzionario", ha commentato il Ministro dell'Economia, "che porterà enormi benefici ad una delle categorie sociali più vulnerabili in Italia, quella degli imprenditori".
In base alla nuova riforma, le imprese potranno quindi beneficiare di nuove regole per quanto riguarda l'assunzione di nuovo personale. Al posto dell'antica e obsoleta procedura di selezione strutturata per colloqui, la nuova formula prevede l'apertura di una semplice asta. Ciascun candidato potrà quindi avanzare la propria offerta economica per aggiudicarsi il posto di lavoro (con la possibilità, in base al criticato emendamento proposto dall'opposizione, di rilanciare fino a tre volte), che sarà ovviamente assegnato a chi formulerà l'offerta più alta. che a quel punto diventa ovviamente vincolante. "Lo scopo", spiega un portavoce del Ministro, "è semplicemente quello di responsabilizzare i giovani nei confronti del mondo del lavoro, che oggi più che mai dev'essere vissuto con serietà ed impegno. La serietà e l'impegno da parte nostra ci sono, visto che abbiamo spinto perché le nuove modalità di assunzione fossero il più possibile semplici e trasparenti".
Previste anche agevolazioni per chi non dovesse disporre dell'intera somma dichiarata. Il vincitore potrà infatti sottoscrivere un prestito con una finanziaria convenzionata e rimborsare poi l'importo con un interesse agevolato, variabile da agenzia ad agenzia (e comunque, come stabilito nel decreto, non superiore al 45%); oppure, in alternativa, potrà rinunciare allo stipendio fino al raggiungimento del totale promesso. "Siamo piuttosto soddisfatti", ha dichiarato il segretario della CGIL, "il pacchetto richiede alcuni piccoli sacrifici ai lavoratori, ma servirà a creare molti nuovi posti di lavoro. E la possibilità per tutti di accedere al credito è un provvedimento equilibrato e democratico, che assicurerà che le procedure siano eque e trasparenti".

lunedì 20 dicembre 2010

Mediocrazia


Viviamo in un'epoca pericolosa. Passiamo dieci ore al giorno davanti a uno schermo che definire una finestra sul mondo sarebbe un ridicolo eufemismo.
La televisione, quella sì era una finestra sul mondo. Certo, potevi scegliere il canale, e quindi il punto di vista dal quale guardare il mondo, ma il mondo era quello e basta. Se proprio non ne potevi più, spegnevi lo scatolone e ti leggevi un libro in pantofole accanto al caminetto. Ma tanto il mondo andava avanti là fuori per conto suo, sapendo che prima o poi saresti tornato a sbirciarlo.
E però, senza che quasi ce ne accorgessimo, la televisione da qualche anno a questa parte si è dissolta in qualcos'altro, senza dirci nulla. Qualcos'altro che non è più una semplice finestra sul mondo, ma una finestra su un universo di infiniti mondi possibili. Personalizzabili, full optional, chiavi in mano. Il telecomando si è suicidato e ha lasciato il suo posto in eredità alla tastiera. Come dire: fai te, adesso sei tu il padrone, non devi più limitarti a scegliere un percorso predefinito, puoi costruirtelo direttamente. E sarà tuo e soltanto tuo.

Insomma, una bella responsabilità. Perché la democrazia può essere davvero molto pericolosa, se finisce nelle mani di chi non ha gli strumenti culturali per dominarla. E soprattutto, per capire quanto vale. Ci vuole una certa sensibilità per tuffarsi in un pastone in cui loro malgrado coabitano Dante e Moana Pozzi, Baudelaire e Umberto Smaila, George Orwell e la Endemol, l'Osservatore Romano e YouPorn, Cicerone e Francesco Totti, Keith Jarrett e Giovanni Allevi, il Dalai Lama e Paolo Bonolis, Garcia Lorca e i Modà, senza perdere l'orientamento. Un po' di sensibilità culturale, semplicemente. E magari anche più di un po', si spera.
Il problema è che chi è cresciuto a pane e Bagaglino questa sensibilità potrebbe davvero non averla. Peggio, potrebbe addirittura non volerla avere. Perché è faticosa, da conquistare e da mantenere. Meglio delegare a qualcun altro che faccia la fatica al posto nostro, qualcuno che selezioni per noi il meglio e ce lo faccia trovare a disposizione compattato in un format da 4o minuti (più 20 di sacrosanta pubblicità), da ascoltare in streaming o scaricare in podcast su iTunes. Non importa chi lo prepara, basta che dentro ci sia un po' di cultura pret a porter, premasticata e ad alta digeribilità.

C'è qualcuno, capace ed onesto, che questa cosa sa farla in maniera coscienziosa, riuscendo nel piccolo miracolo di raccontare, ad esempio, un pezzetto di risorgimento italiano in tre quarti d'ora, senza tralasciare nulla di rilevante, senza banalizzare, e perché no, senza nemmeno annoiare.
C'è però anche qualche impostore che, puntuale come un esattore delle tasse svizzero, approfitta della situazione per smerciare sottobanco cultura contraffatta. Un brano di Saramago pasticciato con la sigla dei Puffi. Un Notturno di Chopin allungato al brodo di Taricone, pace all'anima sua. Un aforisma di Oscar Wilde che introduce Lady GaGa. Tutto all'insegna di una gioiosa e spregiudicata contaminazione pop. Cultura facile e a prezzi modici, così ognuno può procurarsi la sua dose di saggezza a buon mercato e sentirsi in pace con la coscienza. E anzi, si sentirà in diritto di spargere il nuovo verbo plug&play pasticciando email grondanti pseudosaggezza da inviare agli amici, o magari postando un aforisma di Voltaire su Facebook per commemorare la prematura scomparsa del criceto.
Ma la cultura così arriva a tutti, diranno gli entusiasti, chi ascolta Lady GaGa conoscerà Oscar Wilde, i fan dei Puffi potranno innamorarsi di Saramago, i nostalgici di Taricone lo ricorderanno sulle note di Chopin. Ma quanti di loro sapranno riconoscerla, ed apprezzarla per quel che è, questa benedetta cultura? L'aforisma di Wilde diventerà una frasetta simpatica, il brano di Saramago un pezzo di un libro fico scritto da boh non mi ricordo chi, il Notturno di Chopin una musichetta carina per ricordare il povero Pietro. Allo stesso modo in cui la musica di Via col vento ha condotto, nell'immaginario collettivo, all'orrida trasformazione di Rossella O'Hara in Bruno Vespa, e così come il Grande Fratello, eminenza grigia della più lucida e al tempo stesso visionaria distopia della letteratura contemporanea, è diventato ormai il patrono di un'orgia patinata da prima serata.

Pare strano a dirsi, eppure l'eccesso di democrazia, se finisce in mani sbagliate, non fa altro che svilire la cultura, trascinandola inesorabilmente in un meschino ristagno di mediocrità.
Col risultato, inquietante, che anche la democrazia perde di valore, e diventa democrazia mediocre. O, se preferite, mediocrazia.

giovedì 9 dicembre 2010

Aria fritta (ma non solo...)


C'è aria fritta e aria fritta. Voglio dire, l'aria fritta non è tutta dello stesso tipo, anche se un occhio inesperto potrebbe non cogliere la differenza e cadere in confusione.
O meglio, più che un occhio, un naso.

Molta dell'aria fritta che si respira in giro è banale, ordinaria, dozzinale, talmente scontata nella sua fragrante inconsistenza da poter essere svelata senza troppa difficoltà. Si riconosce perché il suo aroma tende a saturare chi lo inala dopo una manciata appena di usmate. E' costruito, artificiale, e soprattutto sempre uguale a se stesso, visto che chi lo propina non si cura minimamente di aggiungere alcuna essenza che possa fornire una nuova delicata sfumatura all'aroma complessivo. Insomma, come quegli svedesi che friggono le fettine di carne sempre con lo stesso bisunto olio semiartificiale infarcito di conservanti, riversandolo per giunta dentro la confezione dopo che hanno terminato, per riutilizzarlo Dio solo sa quante altre volte. Anzi, forse è meglio per loro se non lo sa.
Quest'aria, invece di profumare, impuzzolentisce. Invece di saziare, disgusta. Invece di riempire, svuota.

Poi ci sono i professionisti dell'aria fritta. Quella vera, che non ci si stanca mai di stare a sentire. Quest'aria è un crogiuolo di sapori ed essenze che mutano continuamente la loro elegante miscela senza tuttavia smarrire l'aroma principale. Ha dentro la fragranza della più tenera cotoletta impanata a regola d'arte nel migliore bistrot di Milano. Il profumo di un filetto di baccalà appena pescato nel porto di Barcellona e poi dorato e fritto in un chiringuito sul lungomare mentre il sole scivola pigro dietro il Montjuïc. L'aroma festoso di una frittata di cipolle e zucchine appena fatta a quadratini e servita in un piatto di coccio su una terrazza di Trastevere un Giovedì sera di metà Luglio.
Sai perfettamente che è solo aria, eppure giureresti di sentirti sazio per davvero dopo averla respirata per un po'. Sai benissimo che è semplicemente fritta, eppure quel profumo non ti stanca e non ti disgusta. Sai alla perfezione che è solo aria fritta, eppure non puoi non provare ammirazione dentro di te per chi ha saputo friggerla così bene. Moderno Winston Smith in 4D, riesci contemporaneamente a credere e non credere a quello che ti fanno respirare.

Finché arriva l'ultima generosa annusata, e finalmente ti accorgi di quella sfumatura che timidamente si fa strada nel tripudio di aromi, e lentamente prende il sopravvento fino a trasformarsi in un pungente lezzo di letame.
L'odore delle stronzate. Pure, sincere ed oneste, ma pur sempre stronzate. Che non sono menzogne a tutto tondo, ma piuttosto, come osserva Harry G. Frankfurt, una "falsa rappresentazione, ingannevole pur senza giungere alla menzogna". Insomma, aria fritta al gusto di merda.
O, più semplicemente, merda fritta.

venerdì 30 luglio 2010

Note mondiali

A venti giorni dalla fine della Coppa del Mondo la mente è sufficientemente lucida ed il cuore (sportivo, s'intende) sufficientemente rasserenato per riflettere finalmente in modo obiettivo su cosa ci siamo appena lasciati alle spalle, calcisticamente parlando. Ecco quindi una carrellata di considerazioni, nazionale per nazionale.






SPAGNA - Il movimento iberico, è indubbio, ha raggiunto finalmente una straordinaria maturità, che si è tradotta in risultati notevoli. Il ritardo storico rispetto alle altre grandi europee, Italia, Germania e Francia s'intende, ha pesato per diversi decenni, ma la clamorosa doppietta europeo-mondiale in tre anni iscrive a forza il nome della Spagna all'interno del club delle grandi, nel mondo ma soprattutto in Europa.
Va detto però che il successo spagnolo ha davvero poco di spagnolo, per il modo in cui è arrivato: dopo aver rotto le scatole a mezzo pianeta perché nessuna delle squadre che vinceva un grande torneo esprimeva un gioco spettacolare, dopo aver pontificato per decenni riguardo al proprio calcio scoppiettante e votato costantemente all'attacco (ma ahimé mai vincente), contrapposto con malcelata invidia all'arcigno catenaccio nostrano (tetracampione sì ma liquidato come anticalcio), finalmente le Furie Rosse sembrano aver appreso la lezione italotedesca. Se già la finale di Euro 2008 aveva mostrato gli spagnoli chiudersi a gestire il vantaggio dopo il rapace 1-0 di Torres senza più colpire, l'intero percorso mondiale è stato votato al cinismo ed all'opportunismo, a discapito dello spettacolo. Liquidato il girone con più difficoltà del previsto, la regola seguita è stata quella dell'1-0. Con tremende sofferenze, specie contro il Paraguay, sprecone nei quarti, e contro l'Olanda, suicida in finale. Vittorie di misura e di nervi, insomma, tutt'altro che spettacolari, che mi hanno ricordato molto la grande prova di carattere degli azzurri quattro anni fa. La Spagna, insomma, ha avuto la maturità e l'umiltà di capire che per vincere non doveva giocare alla spagnola, ma all'italiana.
Resta una crepa, in questo successo, e cioè proprio l'atteggiamento verso il successo. Ricordando l'autentica esplosione di gioia azzurra in campo dopo il rigore di Grosso, è stato senza dubbio irritante vedere la sufficienza con cui Casillas e compagni hanno festeggiato il trionfo: qualche abbraccio, qualche pacca sulla spalla, e stop. Avevano il diritto, e credo anche il dovere, di lasciarsi andare completamente. Invece hanno minimizzato, forse con la convinzione già acquisita che il titolo spettasse a loro e la pratica fosse solo una formalità. Un atteggiamento molto poco rispettoso per gli avversari e soprattutto per la coppa, in qualche modo svuotata così della sua pagana sacralità. Questa spocchia non aiuterà la Spagna a diventare più simpatica, ed anzi forse le farà montare la testa in modo assai controproducente. Del resto ne abbiamo già viste di storie così, no?






OLANDA - Ogni giorno ringrazio il cielo di non essere olandese. Quella che fino ad un mesetto fa poteva essere considerata semplicemente la sfortuna di una generazione di fuoriclasse, quella dei vari Cruijff, Neeskens, Krol e via dicendo che negli anni settanta riuscirono a perdere due mondiali consecutivi, è stata trasformata dalle ciabattate di Robben in un'autentica maledizione. Tre finali mondiali perse! Chi ha ancora davvero voglia di lamentarsi per lo scivolone del Lippi-bis?
Prima della finale avevo l'impressione che il vero avversario dell'Olanda, che ritengo tuttora un gruppo tecnicamente più competitivo di quello iberico, non fosse la Spagna ma il fantasma del suo passato. Lo stesso Cruijff aveva fatto sagacemente pretattica, dichiarando la Spagna certamente favorita per la finale. Indubbiamente una mossa votata alla scaramanzia estrema, perché chiunque creda un po' nella legge dei grandi numeri non poteva proprio credere che, dopo sei vittorie consecutive, compresa la leggendaria rimonta sul Brasile, sarebbe arrivato il terzo schiaffone. A livello storico, infine, il successo oranje sarebbe stato infinitamente più legittimo, visti i trascorsi di altissimo livello della compagine arancione, rispetto invece ad una Spagna che si presentava imberbe alla sua prima finale, a ben 60 anni di distanza dal suo miglior piazzamento (quarto posto a Brasile 1950), seguito poi praticamente dal nulla, fatti salvi i due titoli continentali. E invece l'Olanda, che pure ha dominato per buona parte la finale, non ha saputo scacciare via del tutto il terrore di non farcela. Imbambolato ed intontito, Robben non è riuscito a mettere a frutto almeno due delle deliziose gemme che periodicamente scaturivano dai piedi di Sneijder. Di contro, il gol subito dall'ottimo Stekelenburg appare terribilmente ordinario, quasi volgare. E così se oggi l'Olanda si guarda un po' intorno, si accorge che tra le grandi o presunte tali è rimasta lei l'unica e sola senza coppa, lei che forse, per quanto ha saputo innovare ed insegnare negli anni, la meriterebbe più di altre.
Resta la sincera gratitudine per aver triturato il Brasile, evitando i rischi di una squadra esacampione. Ma se vogliamo continuare a dar credito alla cabala, allora la sconfitta era nell'aria. E' infatti da 24 anni che chi elimina il Brasile poi non vince la coppa: è capitato alla Francia nell'86, all'Argentina nel '90, di nuovo alla Francia nel 2006 e quest'anno all'Olanda. L'ultima che ci riuscì, 28 anni fa, fu l'Italia.






GERMANIA - Prosegue la prova di grande continuità, con l'undicesimo podio su 17 partecipazioni. E resta pure l'impressione che, con appena un po' più di dedizione, questa squadra sarebbe potuta andare fino in fondo. Il trattamento devastante riservato a due delle avversarie tradizionali, Inghilterra ed Argentina, che si sono viste rifilare 4 gol ciascuna, lasciava l'impressione che la Spagna non avrebbe avuto vita facile. Invece, forse complice lo sforzo di alto livello cui è stata chiamata già a partire dagli ottavi, la gloriosa armata teutonica si è inceppata sul più bello, contro quella che a questo punto è da considerarsi la sua nuova bestia nera, con strascichi anche nella finale per il terzo posto, addomesticata non senza qualche affanno.
Resta la grande prova di carattere, unita alla consapevolezza che la Coppa del Mondo rimane, più ancora dell'europeo, l'ambito in cui questa squadra sa mantenersi perfettamente a suo agio.






URUGUAY - Chi ha parlato di "sorpresa", "rivelazione", "cenerentola", "risultato incredibile" e via dicendo è semplicemente un ignorante. Se fa il giornalista non farebbe male a cercare di cambiare mestiere, ma in ogni caso dovrebbe documentarsi ed informarsi. Perché l'Uruguay, che è stato descritto da alcuni quasi come una pittoresca armata di dilettanti allo sbaraglio, è un pezzo autentico ed ingombrante di storia del calcio, che in bacheca vanta 2 Coppe del Mondo, 2 Olimpiadi e ben 14 Coppe America (laddove il tanto celebrato Brasile ne ha invece conquistate "solo" 8). Va precisato, naturalmente, che ampia parte di questi trofei sono alquanto datati: i titoli mondiali risalgono a 1930 e 1950, quelli olimpici addirittura a 1924 e 1928, 8 Coppe America su 14 risalgono a prima del secondo conflitto mondiale, mentre per rintracciare l'ultimo trofeo in bacheca bisogna tornare al 1995. D'accordo, una nobile se non decaduta quantomeno un po' appannata. Ma pur sempre una nobile.
Complice un girone non impossibile ed un tabellone benevolo, non stupisce dunque ritrovare la Celeste fra le grandi del calcio, con la soddisfazione non da poco di essere la miglior squadra sudamericana al torneo, meglio di Brasile ed Argentina per intenderci. In quello che sembrava un raggruppamento quasi studiato su misura per far passare Francia e Sudafrica, l'Uruguay ha rovinato entrambe le feste, prima strappando un utile pareggio a reti bianche con i transalpini, poi massacrando i padroni di casa con un impietoso 3-0 firmato per due terzi Forlan, infine togliendosi la soddisfazione di battere anche il Messico, di misura con un gol di Suarez, e vincere il girone. Da lì in poi, il grande, grandissimo cuore uruguagio ha fatto la differenza nei momenti che contavano. Prima agli ottavi con la doppietta del solito Suarez, decisivo nello sbloccare il risultato dopo il pareggio sudcoreano, poi soprattutto ai quarti, nell'incredibile sfida col Ghana. Tocca a Forlan, autentico simbolo di questo gruppo, prendersi sulle spalle la squadra dopo il gol di Muntari. Lo fa nel migliore dei modi, insaccando una punizione impossibile. Il finale di partita è già storia. Al 121°, dunque a pochi secondi dai rigori, nel pazzesco batti e ribatti che si scatena nell'area uruguagia, Suarez, ancora lui, è sulla linea di porta e vede chiaramente che la palla sta per entrare. D'istinto si sacrifica, facendo l'unica cosa che va fatta. Un fallo di mano grosso così. Ma sacrosanto. Perché quella palla sarebbe entrata sicuramente, il rigore che ne segue forse no. Ed infatti Gyan, assurdamente, manda la palla sulla traversa, la partita finisce, si va ai rigori, ed il cuore uruguaiano ha di nuovo la meglio. E dopo 40 anni, è di nuovo fra le prime quattro.
La semifinale con l'Olanda è una sfida segnata, ma Forlan non ci sta e pennella un altro dei suoi velenosissimi tiri dalla distanza che il sonnacchioso Stekelenburg si lascia sfuggire. Finisce 3-2 per l'Olanda, ma l'Uruguay esce a testa non alta, altissima. Un po' di sfortuna con la Germania relega la Celeste al quarto posto, ma Forlan fa in tempo a segnare la quinta marcatura personale. Non stupisce, dunque, che vada a lui il titolo il Pallone d'Oro di miglior giocatore del torneo. Uomo squadra, goleador sopraffino, assistman, trascinatore generoso, capitano senza fascia, professionista umile e corretto, legatissimo alla maglia. E, aggiungerei, forse l'unico che è stato in grado di capire come si segna una punizione col Jabulani.






BRASILE - Se questa squadra parte sempre col favore dei pronostici ma ha ottenuto "solo" 5 successi su 19 partecipazioni, un motivo ci sarà. Anche stavolta mi è sembrata, più che un gruppo affiatato, una collezione di primedonne messe assieme a forza. Si sa che questa squadra, quando è in vena, riesce a creare una sinergia di gioco che non lascia scampo ai rivali. Ma se non scatta nulla, le singole giocate di alcuni fuoriclasse possono garantire il primato nel girone ed il passaggio ai quarti contro il modesto Cile, ma niente possono alle prese con una macchina perfetta come l'Olanda. Il successo azzurro del 2006, è noto, dipese in larga parte anche dalla straordinaria coesione del gruppo. Ecco perché Dunga avrebbe dovuto lavorare un po' di meno sul campo ed un po' di più sullo spogliatoio.






ARGENTINA - Ancora una volta il mondiale dell'Albiceleste somiglia più ad una telenovela che ad un torneo di calcio. Dopo lo psicodramma delle qualificazioni, archiviate in una maniera che definire rocambolesca è senza dubbio un eufemismo, la squadra si deve confrontare con l'ingombrantissima ombra del suo CT. Straordinario motivatore ma discutibile selezionatore, oltreché tatticamente impreparato, Maradona, perennemente infagottato nel suo abito da cresima mafiosa, ignora deliberatamente alcuni dei principali protagonisti del triplete nerazzurro, lasciando a casa a guardare il mondiale in ciabatte davanti alla tv due centrocampisti incredibili come Cambiasso e Zanetti, ed impiegando col contagocce un bomber devastante come Milito, preferendo loro gente da prepensionamento come Veron o addirittura Palermo, uno che in Coppa America contro la Colombia, nel lontano 1999, riuscì a sbagliare tre rigori in una partita sola, non so se mi spiego.
Eppure, la tradizionale miscela di genio e sregolatezza argentina sembra funzionare. Nel girone, dopo il timido esordio con la Nigeria, nelle more che Messi si ricordi di essere Messi, ci pensa una sontuosa tripletta di Higuain a schiantare la Corea del Sud, mentre per il gran finale contro la solita sopravvalutatissima Grecia riesce ad andare in gol addirittura l'apparentemente rinato Palermo. In panchina Maradona sbuffa, soffre, suda, sbraita, gioisce, inveisce, sembra insomma vivere ogni momento in perfetto unisono con i suoi ragazzi. La formula sembra funzionare a meraviglia. Di Messi si continuano a non avere notizie, ma bastano (ed avanzano) una doppietta dell'ottimo Tevez ed un sigillo ancora di Higuain per abbattere un Messico non proprio irresistibile. Quando la situazione comincia a farsi interessante ed i dubbi sulle qualità di Maradona iniziano a diradarsi, e cioè in vista del quarto di finale con la Germania, l'Argentina semplicemente si dissolve. Pesano l'inconsistenza difensiva, l'età di molti giocatori, la presunzione di Messi che col Barcellona ha vinto tutto ma in nazionale vaga come uno spettro senza pace. La Germania va giù pesante e quattro mazzate ben assestate spezzano i sogni di Maradona. Ma chi poteva davvero pensare che potesse essere in grado di allenare una nazionale uno che, quando c'era da risolvere la situazione, faceva tutto da solo perché semplicemente non aveva bisogno dell'aiuto dei compagni?






GHANA - Checché ne dica Shakira, non è stata nemmeno questa la volta buona per l'Africa. Se il Sudafrica è riuscito ad entrare negli annali unicamente per il record negativo di essere, nella storia dei mondiali, la prima rappresentativa padrona di casa a venire eliminata al primo turno, con la sola magra consolazione di aver avuto ragione, nella terza partita, di una Francia più che agonizzante, quasi nessuna delle altre ha saputo fare molto di meglio. Quattro punti per la Costa d'Avorio, mai realmente in grado di impensierire Brasile e Portogallo, appena uno per Nigeria ed Algeria, quest'ultima se non altro capace di bloccare sullo 0-0 l'asfittica nazionale inglese, addirittura nessuno per il Camerun. Per non parlare dell'enigma della nazionale egiziana, che ha dominato le ultime tre edizioni di Coppa d'Africa, permettendosi anche di sorprendere gli azzurri in Confederations Cup l'anno scorso, ma da Italia '90 non mette piede ai mondiali.
Unica eccezione il Ghana, capace di districarsi molto bene in un girone insidioso, raccogliendo di fatto il tifo dell'intero continente in quanto unica rappresentativa africana rimasta in gioco nella fase ad eliminazione. Superata un po' a sorpresa la Serbia, con un rigore di Gyan quasi allo scadere, e pareggiato poi il vantaggio australiano grazie ad un altro rigore di Gyan, il Ghana può permettersi di perdere con la Germania, aiutata dal contemporaneo successo dell'Australia sulla Serbia. Più ostica la sfida con gli Stati Uniti, ma a risolvere la partita ai supplementari ci pensa, guarda un po', Gyan.
Il quarto di finale con l'Uruguay è un appuntamento con la storia. Mai infatti un'africana è arrivata in semifinale: nel '90 il Camerun di Milla si dovette arrendere all'Inghilterra dopo essere stato addirittura in vantaggio, nel 2002 il debuttante Senegal fu invece purgato da un golden goal turco. Stavolta le cose sembrano diverse perché al 121°, sul punteggio di 1-1, il Ghana si procura un ineccepibile rigore. A chi affidare il delicato compito, se non allo specialista, nonché capocannoniere? Gyan spiazza Muslera, ma lo fa sparando un missile sulla traversa. Fallita l'incredibile occasione si va ai rigori, ed assurdamente il primo a tirare è proprio Gyan. Che stavolta va a segno, ma non basta perché Muslera ai rigori si esalta e ne para due. L'appuntamento con la storia è rinviato anche stavolta.






INGHILTERRA - Nemmeno la "scandalosa" decisione di affidarsi ad un tecnico straniero, per di più, orrore degli orrori, italiano (!), è servita per fare il salto di qualità. L'Inghilterra, terra di nascita del calcio, tra tutte le nazionali iridate è quella che ha vinto meno: un unico trofeo, un'impolverata Coppa del Mondo vecchia ormai di 44 anni; e poi nulla più. Persino Francia e Spagna hanno una bacheca più ricca, con due europei ciascuna (e la Francia anche un titolo olimpico, se vogliamo dirla tutta). Per curioso che possa sembrare, la nazionale più antica del mondo è anche una di quelle che hanno vinto meno.
Eppure, assolutamente incurante dell'enorme fardello che tutto ciò comporta, Capello si è prodigato, assai poco prudentemente, in proclami strafottenti sui grandi risultati cui avrebbe condotto la squadra. Caricando di aspettative esagerate una nazione di poveracci che hanno vinto l'unica coppa quando ancora si chiamava Coppa Rimet. Poveracci davvero: dopo la papera di Green contro gli USA, lo 0-0 con l'Algeria ed il successo striminzito sulla Slovenia, il primato nel girone è andato agli americani, obbligando l'Inghilterra ad un ottavo suicida con la Germania. Insomma, tutto quello che doveva essere evitato. E sappiamo tutti com'è finita; c'è chi recrimina ancora per il gol fantasma, ma perdere 4-1 o 4-2 che differenza fa?
Il punto è che Capello secondo me si sarebbe dovuto dimettere. Non per la stranita presa con la Germania, ma per non aver saputo evitare di incontrarla vincendo il girone, com'era suo preciso dovere. Anche perché per un inglese vedere la sua nazionale arrivare seconda dietro gli Stati Uniti è troppo. Davvero troppo.






PORTOGALLO - Non pervenuto. Due scialbi 0-0 con Costa d'Avorio e Brasile inframezzati da un esagerato 7-0 con la Corea del Nord, poi un pasticcio nel derby iberico contro una Spagna tutt'altro che irresistibile. Manca completamente la leadership di Cristiano Ronaldo, insopportabilmente arrogante, con l'aria di uno interessato più a fare il modello che a giocare a calcio, e quasi scocciato di dover indossare la fascia di capitano.
Mi manca uno come Luis Figo, un gentiluomo che segnava, faceva segnare e sapeva guidare la squadra in ogni momento senza montarsi mai la testa. E manca tanto anche al Portogallo.






ITALIA - Del tracollo azzurro si è detto e scritto di tutto. Anche troppo, direi. Noi italiani abbiamo il difetto nazionale di umiliarci sempre in maniera esagerata quando le cose non vanno per il verso giusto, esaltando poi gli stranieri quando fanno qualcosa che funziona anche solo un po' meglio di come la facciamo noi. Ma basta dare una rapida occhiata per accorgerci che la storia dei mondiali è piena quanto basta di illustri eliminazioni al primo turno. E' capitato all'Inghilterra nel '58, all'Uruguay nel '62, all'Argentina nel '58 e nel '62, alla Spagna nel '62, nel '66, nel '78 e nel '98, alla Francia nel '66, nel '78, nel 2002 e poi proprio quest'anno, al Portogallo nell'86 e nel 2002, è capitato anche al Brasile del '66 (eh già, proprio quello di Pelè...). Insomma, capita. Non è né una giustificazione né un alibi, ma capita.
Se ancora non siete convinti, lasciate che vi faccia alcune semplici domande. Dov'era l'Argentina nel '54 e nel '70? Dov'era la Francia nel '62, nel '70, nel '74, nel '90 e nel '94? Dov'era l'Inghilterra nel '74, nel '78 e nel '94? Dov'era la Spagna nel '54, nel '70 e nel '74? Dov'era l'Olanda nel '54, nel '62, nel '66, nel '70, nell'82, nell'86 e nel 2002? La risposta è la stessa per tutte le domande, ma nondimeno è sorprendente. Erano tutte a casa, perché non si erano qualificate. Noi invece c'eravamo, perché ci siamo stati praticamente sempre. 17 volte su 19, come la Germania. Solo il Brasile ha saputo fare di meglio. Vi sembrerà poco, a me sembra molto.
Senza fare drammi, quindi, va preso atto del fatto che Lippi è riuscito nella singolare impresa di far disputare all'Italia il suo migliore ed il suo peggiore mondiale. Tant'è, il trionfo del 2006 è un ricordo un po' appannato ma ancora sufficientemente fresco per ripartire da lì, come spirito e mentalità. Gli uomini per (ri)costruire la squadra ci sono, e se ancora non ci sono verranno fuori. Io continuo a credere nella regola dei sei anni. Da Spagna '82 ad oggi, se ci fate caso, l'Italia ha sempre disputato un ottimo torneo ogni sei anni: campione del mondo nell'82, semifinalista europea nell'88, vicecampione del mondo nel '94, vicecampione d'Europa nel 2000, campione del mondo nel 2006. Abbiate fiducia, uscirà fuori qualcosa di buono anche con Prandelli, speriamo proprio quest'europeo che ci manca da un po'.






FRANCIA - Chiudiamo in bellezza con la Francia, in grado (e non era facile) di chiudere il girone con meno punti dell'Italia: 1 a 2. Niente male per due squadre che solo quattro anni fa si giocavano il titolo. Va detto che il girone dei bleus era sulla carta più complicato del nostro, ma a conti fatti risulta davvero difficile aggiungere qualcosa di più su una nazionale che invece di giocare ha passato tutto il tempo a litigare. Con Domenech nei panni di insopportabile demotivatore si è arrivati all'assurdo di vedere la squadra ammutinarsi e rifiutarsi di scendere in campo per l'allenamento. Uno spettacolo raccapricciante, insomma, e senza dubbio meno edificante del nostro. Continuo solo a farmi una domanda, che non avrà, credo, mai risposta. Ma perché Domenech non fu cacciato via già due anni fa?

martedì 6 aprile 2010

Il Presidente era salvo

Il raggio lo colpì di striscio, smaterializzandogli un lembo dell’uniforme. Trovò riparo in una nicchia e si preparò al contrattacco. Sportosi in cerca del nemico, notò con disappunto i suoi gradi bruciacchiati e impolverati al suolo. Accecato dalla rabbia scagliò un masso nell’oscurità, poi ritrovò la freddezza e si acquattò nell’ombra, dove riprese a maledire quella schifosa guerra che da ormai sette cicli devastava il pianeta.
La luce rossa cominciò a lampeggiare nella penombra. Lentamente uscì dal torpore, e si ritrovò disteso nel termogiaciglio, ancora turbato dall’incubo appena concluso, malgrado fosse ormai da tempo abituato a rivivere quasi ogni notte le drammatiche vicende che gli avevano fruttato due ferite, cinque decorazioni al merito, la morte del suo migliore amico ed un decisivo avanzamento di carriera presso lo Stato Maggiore dell’Astronautica Militare Confederata.
Raggiunse a grandi balzi il plasmaschermo, dove si materializzarono all’istante i lineamenti insolitamente accigliati di Ykhskmyr Nadjknjw Pənler III, al suo secondo mandato come Presidente della Giunta Esecutiva Confederata. Detestava in modo genuino la sua mediocrità politica, l’accolita di illustri imbecilli di cui si era circondato, le penose battute con cui tentava di procacciarsi la simpatia dell’opinione pubblica; era peraltro convinto che il disprezzo fosse assolutamente reciproco, ma nondimeno gli si rivolse con il tono che più si addiceva al Comandante Supremo dell’Esercito Confederato: «L’Esercito saluta Sua Eccellenza Ykhskmyr III. Ai Suoi ordini».
Contrariamente alle sue previsioni, il Presidente non rispose con la formula di rito, ma lo fissò severamente: «Non c’è tempo per le formalità, Generale Kkhemz. Mi raggiunga subito all’astroporto militare. A quanto pare non siamo soli nell’universo».
Nessuna traccia della sua abituale strafottenza.
Mentre sfrecciava sull’aviostrada 75, ripensò turbato alle parole del Presidente. Da almeno trecento cicli si erano concluse le missioni esplorative nelle galassie limitrofe, e tutte le sonde avevano dato esito negativo. Adesso, invece, era stato individuato dai rilevatori un oggetto ignoto diretto verso il pianeta. Gli elaboratori ne avevano automaticamente calcolato la rotta, ed avevano stabilito con certezza che doveva essere partito da uno dei nove planetoidi che orbitavano intorno alla stella Elos IX. Possibile che una navicella aliena potesse venire da così lontano? Eppure gli elaboratori non avevano mai sbagliato. Almeno sinora.
Sfrecciò incurante attraversò tre o quattro ologrammi pubblicitari ed approdò nel vasto parcheggio. Fu ricevuto sbrigativamente da Zhhekll Poelh Sehkhs Jhagr V, Comandante dell’astroporto. Un tipo in gamba, che arrivò subito al punto: «Da circa sei cicli teniamo sotto
controllo quest’oggetto, ma non abbiamo mai diffuso la notizia per precauzione. Ora si è inoltrato nella nostra atmosfera e siamo in grado di stabilire con assoluta certezza che si tratta di un veicolo alieno che ospita forme di vita intelligente».
Il Generale lo fissava senza parole. Zhhekll continuò imperturbabile: «E’ evidente che la navicella sta facendo rotta verso il nostro pianeta. Per questo abbiamo ritenuto indispensabile avvertire il Presidente...» l’imbecille, sinora rimasto in silenzio, lo guardò fiero, come se fosse tutto merito suo «...e l’esercito».
Ykhskmyr prese allora la parola: «Il Comandante mi ha informato che la navicella atterrerà sul nostro pianeta tra circa sei frazioni e un terzo. Generale Kkhemz, non potrà che essere lei ad incaricarsi di adottare le misure di sicurezza necessarie».

Mentre si avviava con andatura solenne nella piana afosa, il Generale Kkhemz Ogrjje Bvjwjjkh XI non sapeva se maledire di più gli alieni, che avevano scelto per l’atterraggio una delle regioni più calde del globo, o quell’idiota del Presidente, al suo fianco con il suo solito atteggiamento da protagonista, che aveva rivelato in mondovisione la notizia, attirando sul posto centinaia di giornalisti, cialtroni e sprovveduti. Mentre si avvicinava allo strano razzo, non poté fare a meno di notare che dalla forma sembrava più una confezione termoisolante di minestra Krajhsc che una navicella spaziale; per la verità se l’era immaginato molto più grande. La sua sorpresa crebbe quando si aprì uno sportello alla base del mezzo e ne vennero fuori due piccoli mostriciattoli: quelli erano dunque gli alieni? Osservò il loro modo ridicolo di avanzare e la forma buffa del loro corpo, racchiuso in una specie di armatura metallica, e pensò divertito a chi aveva profetizzato la venuta di esseri giganteschi e sanguinari: non riusciva ad immaginare degli esseri più impacciati ed inoffensivi...
Si irrigidì di colpo: uno degli alieni si era fermato, aveva accostato le due zampe superiori alla sommità della sua tuta e con un gesto insospettabilmente rapido ne aveva staccato la protuberanza superiore, sollevandola. Kkhemz non perse tempo: si trattava certamente di un’arma e lui aveva il preciso dovere di proteggere il Presidente, a qualunque costo. Con un balzo si avventò coraggiosamente sui due invasori, e li rese rapidamente inoffensivi. Si accorse quasi subito di averli uccisi, ma non provò alcun rimorso: era evidente che si trattava di esseri inferiori.
Osservò disgustato il liquido rossastro che ora bagnava le loro armature, fracassate in più punti, ed i loro miseri e squallidi corpi, orribilmente rosei e con appena quattro zampe.
Una per una, abbassò le otto chele, soddisfatto. Anche stavolta aveva fatto il suo dovere. Quell’idiota del Presidente era salvo.