martedì 3 novembre 2009

The Italian breakfast

Qualche tempo fa ho sgranato gli occhi trovandomi sotto il naso su Facebook il gruppo "Vogliamo Starbucks in Italia". Davvero paradossale. Viviamo nel paese dove probabilmente si mangia meglio al mondo, dove probabilmente si beve il caffè più buono del mondo e dove lo si paga la metà o anche un terzo di quanto costa all'estero, eppure centinaia di persone sentiono la necessità di pagarlo 3 € e berlo in un bicchierone di plastica. Un tipico esempio di esterofilia esasperata, ho pensato, il difetto genetico nostrano che periodicamente ci spinge a pensare che tutto quello che proviene dall'estero è meglio che in Italia. Stavolta però si trattava di una delle cose che sappiamo fare meglio, il caffè, quindi la questione era quantomeno curiosa e meritava di essere studiata.
Leggendo su Wikipedia, scopro che, secondo la leggenda, il mito di Starbucks nasce nel 1983, in occasione di un viaggio a Milano di Howard Schultz, amministratore della catena. A quanto pare, Schultz fu talmente colpito dal clima amichevole e conviviale che si respira nei bar italiani, da decidere di provare a riprodurre questo approccio gestionale nelle sue caffetterie. A prescindere se vi sia riuscito o meno, il tentativo si rivelò giusto, tanto che oggi l'impero di Starbucks conta oltre 9.000 sedi in mezzo mondo, e forse anche di più.
Saggiamente, tuttavia, il buon Schultz si è guardato bene in tutti questi anni dal mettere piede in Italia. Le motivazioni sono espresse chiaramente in un articolo linkato nella medesima pagina di Wikipedia: "Agli Italiani non piacciono le tazze di plastica. Perché? Essi non considerano neanche la possibilità di prendere il caffè fuori dal bar, bevendoselo mentre camminano o guidano". Senza contare, aggiungerei io, che il caffè di Starbucks, oltre a non essere carico come piace a noi italiani, costa circa 4 volte tanto. Il che, per un popolo che mediamente consuma 4 tazzine di caffè a testa al giorno, è tutt'altro che irrilevante.
Eppure, a smentirci parzialmente entrambi, ci sono oggi quasi 3.000 persone che su Facebook, divise in 3 gruppi, inneggiano all'avvento della sirena verde nel belpaese. Il più nutrito, quasi 2.000 iscritti, stila un decalogo di buoni motivi: fra gli altri, "è giovanile", "è alla moda", "è un mix di sensazioni uniche: è intimo ma allo stesso tempo internazionale", "ha poltrone comode", e poi "il caffè è differente da quello nostro ma non per questo fa cagare anzi è buono". Quest'ultima frase è piuttosto inquietante, ma tanta insistenza mi convince comunque a mettere alla prova le virtù di Starbucks.
Quale occasione migliore del mio imminente soggiorno di lavoro a Londra? La mattina dopo il mio arrivo, entro nel primo Starbucks che trovo per fare colazione. La scelta è necessariamente casuale, visto che si tratta di un esperimento su una catena in franchising devo ovviamente dare per scontato che la qualità sia la stessa in qualsiasi punto vendita. Con davanti a me la prospettiva stimolante ma impegnativa di 3 mesi di lavoro e vita a Londra, ordino un cappuccino ed una fetta di dolce, pago un conto salatissimo, dopodiché tiro fuori il netbook per controllare la posta su internet.
Subito una brutta sorpresa: la connessione non è affatto gratuita, come mi avevano assicurato tutti, ma costa la bellezza di £ 8,00 al giorno! Provo a consolarmi con il dolce, che è gustoso ma ha ahimé la consistenza di un foratino. Bevo un sorso di cappuccino e mi ustiono la lingua, per di più è amarissimo, ci verso dentro tonnellate di zucchero ed aspetto un po', ma non diventa né più freddo né più dolce. Purtroppo non ho ancora tempo per aspettare (siamo a Londra e si va di fretta!), così a malincuore sono costretto a lasciare sul tavolo quel beverone infernale ed uscire. Partiamo proprio male.
Nel pomeriggio chiacchiero con mia cognata, che mi chiede le mie prime impressioni inglesi e mi suggerisce di dare a Starbucks una seconda possibilità: "E' chiaro che non si può pretendere che il cappuccino sia buono come quello italiano, semplicemente devi andare lì e lasciarti coccolare". D'accordo, proverò a farmi coccolare.
Qualche tempo dopo mi capita di fare un giro in centro con un'amica e decidiamo di fermarci a prendere un caffè. Neanche lei è rimasta molto convinta da Starbucks, ma decidiamo insieme di provare un'altra volta. Entriamo e ci troviamo davanti una fila epica, almeno trenta persone sono in coda per ordinare. Dopo dieci minuti buoni riusciamo a guadagnare la cassa ed ordinare un paio dei tanto decantati frappuccini. Il cassiere abbozza un sorriso, afferra un paio di bicchieroni di plastica trasparente, ci scarabocchia su qualcosa con un pennarello viola e li passa alla collega. Decisamente spoetizzante, non trovate? La collega riempie i bicchieroni ma fa qualche pasticcio e mi dà un frappuccino sbagliato. Potrei farglielo notare, ma perderei altro tempo e rinuncio. Facendoci largo nella foresta umana riusciamo a guadagnare il piano di sopra e ci lanciamo alla ricerca di un tavolo libero. Sono tutti sporchi e pieni di cartacce, e la cosa mi irrita ulteriormente: d'accordo che siamo a Londra, la patria degli zozzoni, ma io pretendo la mia dose di coccole.
Ci sediamo al tavolo meno indecente, ed immediatamente mi accorgo che ho tutta la mano destra sporca di pennarello viola. Stupido commesso, che non sai neanche passare le ordinazioni a voce!
Finalmente assaggio questo tanto decantato frappuccino. Com'è? E' buono, certo. Ma ci mancherebbe pure che non lo sia, considerando che mi è costato £ 4,00! Di coccole, però, neanche l'ombra. L'esperimento è concluso: considerando che frappè buoni come questo, ed anche migliori, in Italia già li facciamo, per conto mio non c'è alcuna necessità che Starbucks apra anche da noi.
In compenso, nel frattempo scopro l'esistenza di Caffé Nero, una catena inglese di caffetterie la cui diffusione a Londra è persino più capillare di quella di Starbucks. E la cosa più divertente è che, stando alle dichiarazioni di intenti di Schultz, Caffè Nero è esattamente ciò che Starbucks sarebbe dovuto essere ma senza riuscirci: la riproposizione, imperfetta ma apprezzabilissima, di un bar italiano. L'espresso è godibile e viene servito rigorosamente in tazzine di ceramica, ci sono persino croissant e fagottini al cioccolato. E nel momento in cui scopro che ad ogni cliente danno una carta su cui mettono un timbro per ogni caffè, e che ogni 9 caffè il decimo è gratuito, sono fidelizzato per sempre!
Prendo quindi l'abitudine di fare colazione al Caffè Nero vicino casa. Quando le due bariste italiane scoprono che sono loro connazionale diventano se possibile ancora più gentili, addirittura mi mettono ogni volta due timbri anziché uno. E finalmente mi rendo conto di qual è il valore aggiunto del caffè italiano, ciò che aveva colto anche Schultz senza però intuire che non è affatto semplice riprodurlo in serie, semplicemente aprendo una catena in franchising: il barista.
Il caffè al bar è buono non solo perché è buono, ma perché lo serve una persona simpatica, con la quale fare volentieri due chiacchiere, parlare di sport o politica, lamentarsi, chiedere consigli, persino sfogarsi. Il bravo barista sa che, oltre a dover preparare un ottimo caffè, deve diventare un vero e proprio punto di riferimento per il cliente, una figura quotidiana, familiare, persino autorevole.
Poco prima di venire a Londra, durante una delle ultime settimane di lavoro a Roma, ero sceso a fare colazione al bar dell'ufficio come ogni giorno. Di solito avevo l'abitudine di fare colazione un po' tardi, verso le 11 e mezza, ma quel giorno avevo fatto davvero tardi. Non mi ero accorto che era l'una passata ed avevo ordinato come sempre cappuccino e cornetto alla crema. Immediatamente il barista, bonario ma determinato, mi aveva rimproverato: "Ma che ti sembra l'ora del cappuccino questa? Non sei mica un turista americano!". Aveva ragione. Da buon romano, mi ricordava che il momento giusto per prendere un cappuccino è la mattina, prima dell'una. Il cappuccino a pranzo lo lasciamo prendere a qualcun altro. La cosa interessante è che lui dava per scontato, giustamente, che io conoscessi questa regola e che avessi per distrazione cercato di infrangerla, ma in ogni caso avrei desistito dal mio ignobile tentativo.
Così feci. Divertito, avevo ordinato immediatamente un caffè macchiato e gli avevo sorriso. Lui mi aveva servito il caffè compiaciuto, orgoglioso di avermi impedito di compiere un qualcosa di immorale. In qualche modo, aveva vigilato sulla mia coscienza gastronomica, ciò che ogni vero barista dovrebbe essere in grado di fare.
Se domani pomeriggio andassi da Caffè Nero a chiedere un cappuccino, quelle due deliziose ragazze mi guarderebbero storto, ed avrebbero ragione. Se facessi la stessa cosa da Starbucks, quei disgraziati mi servirebbero il cappuccino senza battere ciglio.
Ecco perché il caffè in Italia è più buono.

domenica 1 febbraio 2009

Amore cabriolet

Ciò che cantanti, poeti e fresconi sono soliti chiamare "amore" è in realtà un'acerrima e violentissima battaglia psicologica che l'uomo e la donna combattono l'uno contro l'altra ininterrottamente. La situazione è resa particolarmente complicata dal fatto che i rapporti di forza tra i due sessi sono costantemente squilibrati. Ma andiamo con ordine.

Fino a 12 anni si può dire che non esistono grosse differenze. E' proprio a quest'età tuttavia che si verifica la prima sperequazione: la donna ha una clamorosa impennata nel proprio sviluppo psicofisico e nel giro di un paio di mesi completa la sua trasformazione da bimbetta frignante in vamp senza scrupoli. L'uomo si accorge invece con amarezza di essere rimasto sostanzialmente un nanerottolo moccioloso ed è depresso perché le sue coetanee lo considerano, giustamente, un imbecille.

A 15 anni il divario è massimo. Mentre gli uomini continuano ottusamente a fare a scambio di figurine come quando erano alle elementari, le donne, almeno quelle più spigliate, maneggiano preservativi con la stessa confidenza con cui un croupier del casinò di Lugano muove le fiches alla roulette. Hanno storie con ragazzi più grandi e continuano a considerare i propri coetanei, giustamente, degli imbecilli. Tuttavia è proprio a quest'età che l'uomo prende finalmente consapevolezza del proprio essere un idiota, ed inizia un lungo e paziente lavoro su sé stesso.

A 18 anni la situazione è cambiata. L'uomo ha qualche storia con ragazze di qualche anno più piccole, ma fatica molto a capire il loro modo di ragionare. La donna invece ha conosciuto in discoteca un brillante studente universitario e ne approfitta per farsi scarrozzare avanti e indietro ogni volta che ne ha voglia.

A 20 anni il divario si allarga di nuovo. L'uomo scarrozza ora pazientemente una diciottenne ogni volta che lei ne ha voglia, ma continua a non capire molto riguardo al suo modo di ragionare. In particolare, non capisce perché dica delle cose e poi ne faccia altre, né riesce a spiegarsi perché a volte scoppi a piangere se lui le chiede cose semplici come mandargli qualche sms in meno. La donna invece ha liquidato lo studente ed ora esce con un trentenne che la viene a prendere in SLK.

A 25 anni c'è un periodo critico. La donna viene improvvisamente lasciata dall'uomo della SLK e fa le due cose che fanno tutte le donne che hanno appena concluso una storia di 5 anni: cambia pettinatura e si iscrive ad un corso di salsa. In discoteca si diverte a far credere agli sconosciuti di essere attratta da loro, solo per poter poi ridere insieme alle amiche della cosa. Di tanto in tanto riceve delle proposte indecenti da qualche facoltoso quarantenne, che a volte accetta.
L'uomo invece è disorientato: la sua ex lo ha lasciato per mettersi con un trentenne che guida una SLK e quasi tutte le donne che ha occasione di conoscere sono fidanzate da diversi anni. Ormai ha finalmente trovato lavoro ma vive al di sopra delle sue possibilità ed ogni mese butta mezzo stipendio offrendo aperitivi e cocktail a sconosciute che sembrano interessate a lui ma poi gli danno buca. Continua a non capirci molto delle donne ed in particolare non capisce per quale motivo si divertano così tanto a sembrare disponibili per poi dare due di picche a destra e a manca. Lui con i suoi amici non farebbe mai una cosa del genere, gli sembra una perdita di tempo.

A 30 anni c'è l'inatteso colpo di scena. Finalmente l'uomo si rende conto che è impossibile capire le donne e fa il definitivo salto di qualità: compra una SLK e va a caccia di ventenni.
La donna invece va semplicemente fuori di testa ed inizia ad essere ossessionata dall'idea di avere un figlio.

A 35 anni la donna si è sposata, ha avuto un figlio ed ha già lasciato il marito per mettersi con il suo capoufficio, che guadagna il doppio. L'uomo invece continua a non capire molto delle donne e, nel dubbio, continua a girare in SLK perché ha visto che tutto sommato funziona. Spende ancora una barca di soldi per offrire aperitivi e cocktail, ma almeno ora se lo può permettere.