lunedì 28 maggio 2007

Montecarlo mon amour

Dal lontano 1995, vittoriosa annata in cui mi appassionai irrimediabilmente del variopinto e ruggente mondo della Formula 1, una volta all’anno continuo a chiedermi, al pari di mezzo mondo, chi sia il pazzo che abbia pensato di realizzare, sulle incantevoli ma anguste stradine del Principato, una pista destinata ad ospitare monoposto abituate a sfrecciare, oggi, addirittura a più di 300 Km/h. D’accordo, è vero che nel 1929, quando il GP ebbe luogo la prima volta, le velocità massime superavano di rado i 150 Km/h, ma se vi sembra poco vuol dire che non avete idea di cosa sia la pista di Montecarlo.


Una meravigliosa follia, ecco cos’è Montecarlo. Ma soprattutto meravigliosa. Come si fa a non innamorarsi di una città del genere? Non si può.
A me è bastato passarci all’incirca mezza giornata, sei anni fa, una veloce passeggiata sui 4 Km del tracciato ed un (costoso) caffè sul lungomare, per sentirmi indissolubilmente legato a quella pista. E a quella città. Perché in fondo sono proprio la stessa, identica cosa.
Tra l’altro si può dire che a Montecarlo è come se ci avessi preparato buona parte degli esami di maturità, visto che in quella torrida Estate del 2003 si era rivelato molto più interessante correre due o tre GP al giorno, grazie alla mitica XBox, piuttosto che studiare Demostene e Nietzsche, tanto per fare un esempio a caso.
Avevo del resto già deciso da tempo che la mia quarta casa sarebbe stata un attico a Montecarlo (dopo un appartamento a Trastevere, un quartierino sulle Ramblas ed una villetta strategica a Wellington o giù di lì, sapete com’è, per avere dodici mesi di caldo sfruttando i vantaggi dell’inversione climatica tra i due emisferi).

Un attico a Montecarlo! Ma ci pensate che bello? Fare le riunioni di condominio con Biaggi e Fisichella! Un aperitivino sullo yacht di Flavio e poi alla sera tutti in smoking a fare puntate al Casinò! E una volta all’anno ti vengono pure a correre il Gran Premio sotto casa!
Il massimo! E tutto questo merito di un illustre ma ai più sconosciuto individuo.

Ecco, ieri, in occasione dell’annunciato tripudio McLaren, finalmente ho scoperto che questo tizio non solo si chiama Anthony Noghes, ma addirittura gli è stata intitolata l’ultima curva del tracciato, visto che tra le altre cose è stato anche l’inventore del non meno celebre Rally di Montecarlo.
Che uomo meraviglioso.
E pensare che da anni, ogni volta che percorro la mitica Cristoforo Colombo, penso a quanto sarebbe bello realizzare un circuito cittadino a Roma, niente di meno che all’EUR!


Ci pensate? Rettilineo di partenza sulla Colombo, direzione Roma, subito prima del maxisemaforo che segue l’innesto con la Pontina; si passa accanto alla scultura di Arnaldo Pomodoro, poi salitella verso il Palalottomatica; si scavalca il laghetto, accelerazione bruciante in direzione dell’Obelisco, poi staccatona all’altezza del Pigorini, ottima punto per tentare il sorpasso; un tratto misto vicino al Palazzo delle Esposizioni, poi rettilineo velocissimo che porta proprio sotto al Colosseo Quadrato; chicane da brividi all’altezza del Caffè Casini, poi un’altra maxiaccelerazione su Viale Europa e si riprende la Colombo con un curvone a destra; da lì salitona, si scavalcano di nuovo laghetto e Palalottomatica, poi un bel tornantino a 180 gradi e si ritorna al rettilineo di partenza.

Geniale, no? Ovviamente il tornante porterebbe il mio nome, come è giusto che sia.
Perché visto che tanto l’attico a Montecarlo con tutta probabilità non me lo potrò mai permettere, sarebbe bello almeno poter ricreare un pezzetto di Montecarlo nella mia splendida, adorata Roma.
Se lo conoscete, fate avere mie notizie a Mr. Ecclestone.

lunedì 21 maggio 2007

Il nome dice tutto

Eccoci qua. Visto che una percentuale in costante aumento delle mie variegate conoscenze dispone di un proprio blog, ho deciso di aprirne uno anch'io, forse per la sotterranea ansia di restare fuori da un magma digitale che ha il singolare pregio di permettere di soddisfare, in un sol colpo, velleità tanto voyeuristiche quanto esibizionistiche. Un po' di sano conformismo del resto non ha mai fatto male a nessuno, no?
Ora, immagino che la curiosità non vi possa impedire di chiedervi: perché BassVertigo? Che significa?
Bella domanda. Ma se continuate a chiederlo a voi stessi indubbiamente non otterrete molto, perché l'unico che forse può saperne qualcosa non posso che essere io. Anche se non è poi così sicuro.

Partiamo da dove è giusto partire, ossia dall'inizio: Bass. Chi mi conosceva sa che dal lontano 2000 mi permetto, forse con malcelata presunzione, di suonare il basso elettrico. Chi non mi conosceva lo sa lo stesso, perché l'ho appena detto.
Non so dire perché mai abbia deciso di iniziare a suonarlo, ma in fondo in fondo lo so perfettamente: diavolo, cosa c'è di più fico del suono di uno slap bass? Non c'è assolo di chitarra, non c'è colpo di rullante, non c'è vocalizzo che possa reggere il confronto.

Un basso suonato in slap è groove al 100%, è esibizionismo, è delirio, è trionfo, è monopolio, perché nessun altro musicista può permettersi di schiaffeggiare così il suo strumento per tirare fuori un suono del genere, un suono che esalta, che fa scaldare il sangue, che lascia a bocca aperta chiunque veda un bassista suonare in questo modo. Perché solo un bassista lo può fare, nessun altro.
E questa è tutta la sua forza, perché un suono così si porta dentro tutta la rivincita, la riscossa di uno strumento nato per lavorare in seconda fila, nell'ombra, al servizio degli altri. Eppure così importante. Perché la gente non sa che forma abbia, a cosa serva, persino che suono tiri fuori, ma se manca non può non accorgersene. Perché senza basso è tutto vuoto.
Senza basso anche il miglior solo di chitarra non serve a niente, ed è inevitabile, è giusto che sia così. Perché è una nota di basso l'unica cosa che può dare senso a tutto. La nota, quella nota, che al momento giusto spalanca un universo di sogni al servizio di chiunque.
Ecco perché noi bassisti siamo così pochi. Perché chiunque può passare tutta una vita a scorazzare su e giù per una pentatonica, come ogni buon chitarrista che si rispetti, ma ben pochi avranno il coraggio di prendere un basso, di accettare di fare solo quella nota in quel momento e poi niente più, silenziosi sacerdoti dell'armonia.
Perché suonare il basso è innanzitutto un modo di essere, c'è poco da fare.

Andiamo avanti: Vertigo. Tante cose si chiamano così: un capolavoro di Hitchcock, un bel singolo degli U2, persino un'etichetta inglese di Rock Progressive.
Ma prima di tutto Vertigo è una parola latina che significa, è evidente, "vertigine".
Anche la vertigine è una mia affezionata compagna di vita: potrei affacciarmi in scioltezza da una balaustra sul tetto dell'Himalaya e guardare giù come se niente fosse, ma se mi chiedete di salire in piedi su uno sgabello alto 30 centimetri mi gira la testa.
Perché è il vuoto intorno che mi terrorizza, non l'altezza.
Eccola qui la vertigine: si fa viva quando meno te lo aspetti, quando non ci sono più appigli, non ci sono più appoggi, quando tutto e tutti se ne sono andati via, e rimane solo un insopportabile vuoto intorno. E allora bastano 30 centimetri per precipitare giù dal tetto del mondo, e sprofondare, sprofondare, senza mai arrivare...
Ma forse basta abbassare un po' lo sguardo per vedere che il pavimento è ancora lì, niente si è mosso, in fondo è stato tutto una suggestione, un'illusione, un equivoco.

Abbiamo quasi finito. Proviamo a mettere insieme le due cose adesso:
Bass + Vertigo = BassVertigo. Molto semplice.
La Vertigine che trascina verso il Basso.
Il suono del Basso, talmente bello che dà le Vertigini.

Vedete, non mi sono sbagliato: il nome dice tutto.