venerdì 30 luglio 2010

Note mondiali

A venti giorni dalla fine della Coppa del Mondo la mente è sufficientemente lucida ed il cuore (sportivo, s'intende) sufficientemente rasserenato per riflettere finalmente in modo obiettivo su cosa ci siamo appena lasciati alle spalle, calcisticamente parlando. Ecco quindi una carrellata di considerazioni, nazionale per nazionale.






SPAGNA - Il movimento iberico, è indubbio, ha raggiunto finalmente una straordinaria maturità, che si è tradotta in risultati notevoli. Il ritardo storico rispetto alle altre grandi europee, Italia, Germania e Francia s'intende, ha pesato per diversi decenni, ma la clamorosa doppietta europeo-mondiale in tre anni iscrive a forza il nome della Spagna all'interno del club delle grandi, nel mondo ma soprattutto in Europa.
Va detto però che il successo spagnolo ha davvero poco di spagnolo, per il modo in cui è arrivato: dopo aver rotto le scatole a mezzo pianeta perché nessuna delle squadre che vinceva un grande torneo esprimeva un gioco spettacolare, dopo aver pontificato per decenni riguardo al proprio calcio scoppiettante e votato costantemente all'attacco (ma ahimé mai vincente), contrapposto con malcelata invidia all'arcigno catenaccio nostrano (tetracampione sì ma liquidato come anticalcio), finalmente le Furie Rosse sembrano aver appreso la lezione italotedesca. Se già la finale di Euro 2008 aveva mostrato gli spagnoli chiudersi a gestire il vantaggio dopo il rapace 1-0 di Torres senza più colpire, l'intero percorso mondiale è stato votato al cinismo ed all'opportunismo, a discapito dello spettacolo. Liquidato il girone con più difficoltà del previsto, la regola seguita è stata quella dell'1-0. Con tremende sofferenze, specie contro il Paraguay, sprecone nei quarti, e contro l'Olanda, suicida in finale. Vittorie di misura e di nervi, insomma, tutt'altro che spettacolari, che mi hanno ricordato molto la grande prova di carattere degli azzurri quattro anni fa. La Spagna, insomma, ha avuto la maturità e l'umiltà di capire che per vincere non doveva giocare alla spagnola, ma all'italiana.
Resta una crepa, in questo successo, e cioè proprio l'atteggiamento verso il successo. Ricordando l'autentica esplosione di gioia azzurra in campo dopo il rigore di Grosso, è stato senza dubbio irritante vedere la sufficienza con cui Casillas e compagni hanno festeggiato il trionfo: qualche abbraccio, qualche pacca sulla spalla, e stop. Avevano il diritto, e credo anche il dovere, di lasciarsi andare completamente. Invece hanno minimizzato, forse con la convinzione già acquisita che il titolo spettasse a loro e la pratica fosse solo una formalità. Un atteggiamento molto poco rispettoso per gli avversari e soprattutto per la coppa, in qualche modo svuotata così della sua pagana sacralità. Questa spocchia non aiuterà la Spagna a diventare più simpatica, ed anzi forse le farà montare la testa in modo assai controproducente. Del resto ne abbiamo già viste di storie così, no?






OLANDA - Ogni giorno ringrazio il cielo di non essere olandese. Quella che fino ad un mesetto fa poteva essere considerata semplicemente la sfortuna di una generazione di fuoriclasse, quella dei vari Cruijff, Neeskens, Krol e via dicendo che negli anni settanta riuscirono a perdere due mondiali consecutivi, è stata trasformata dalle ciabattate di Robben in un'autentica maledizione. Tre finali mondiali perse! Chi ha ancora davvero voglia di lamentarsi per lo scivolone del Lippi-bis?
Prima della finale avevo l'impressione che il vero avversario dell'Olanda, che ritengo tuttora un gruppo tecnicamente più competitivo di quello iberico, non fosse la Spagna ma il fantasma del suo passato. Lo stesso Cruijff aveva fatto sagacemente pretattica, dichiarando la Spagna certamente favorita per la finale. Indubbiamente una mossa votata alla scaramanzia estrema, perché chiunque creda un po' nella legge dei grandi numeri non poteva proprio credere che, dopo sei vittorie consecutive, compresa la leggendaria rimonta sul Brasile, sarebbe arrivato il terzo schiaffone. A livello storico, infine, il successo oranje sarebbe stato infinitamente più legittimo, visti i trascorsi di altissimo livello della compagine arancione, rispetto invece ad una Spagna che si presentava imberbe alla sua prima finale, a ben 60 anni di distanza dal suo miglior piazzamento (quarto posto a Brasile 1950), seguito poi praticamente dal nulla, fatti salvi i due titoli continentali. E invece l'Olanda, che pure ha dominato per buona parte la finale, non ha saputo scacciare via del tutto il terrore di non farcela. Imbambolato ed intontito, Robben non è riuscito a mettere a frutto almeno due delle deliziose gemme che periodicamente scaturivano dai piedi di Sneijder. Di contro, il gol subito dall'ottimo Stekelenburg appare terribilmente ordinario, quasi volgare. E così se oggi l'Olanda si guarda un po' intorno, si accorge che tra le grandi o presunte tali è rimasta lei l'unica e sola senza coppa, lei che forse, per quanto ha saputo innovare ed insegnare negli anni, la meriterebbe più di altre.
Resta la sincera gratitudine per aver triturato il Brasile, evitando i rischi di una squadra esacampione. Ma se vogliamo continuare a dar credito alla cabala, allora la sconfitta era nell'aria. E' infatti da 24 anni che chi elimina il Brasile poi non vince la coppa: è capitato alla Francia nell'86, all'Argentina nel '90, di nuovo alla Francia nel 2006 e quest'anno all'Olanda. L'ultima che ci riuscì, 28 anni fa, fu l'Italia.






GERMANIA - Prosegue la prova di grande continuità, con l'undicesimo podio su 17 partecipazioni. E resta pure l'impressione che, con appena un po' più di dedizione, questa squadra sarebbe potuta andare fino in fondo. Il trattamento devastante riservato a due delle avversarie tradizionali, Inghilterra ed Argentina, che si sono viste rifilare 4 gol ciascuna, lasciava l'impressione che la Spagna non avrebbe avuto vita facile. Invece, forse complice lo sforzo di alto livello cui è stata chiamata già a partire dagli ottavi, la gloriosa armata teutonica si è inceppata sul più bello, contro quella che a questo punto è da considerarsi la sua nuova bestia nera, con strascichi anche nella finale per il terzo posto, addomesticata non senza qualche affanno.
Resta la grande prova di carattere, unita alla consapevolezza che la Coppa del Mondo rimane, più ancora dell'europeo, l'ambito in cui questa squadra sa mantenersi perfettamente a suo agio.






URUGUAY - Chi ha parlato di "sorpresa", "rivelazione", "cenerentola", "risultato incredibile" e via dicendo è semplicemente un ignorante. Se fa il giornalista non farebbe male a cercare di cambiare mestiere, ma in ogni caso dovrebbe documentarsi ed informarsi. Perché l'Uruguay, che è stato descritto da alcuni quasi come una pittoresca armata di dilettanti allo sbaraglio, è un pezzo autentico ed ingombrante di storia del calcio, che in bacheca vanta 2 Coppe del Mondo, 2 Olimpiadi e ben 14 Coppe America (laddove il tanto celebrato Brasile ne ha invece conquistate "solo" 8). Va precisato, naturalmente, che ampia parte di questi trofei sono alquanto datati: i titoli mondiali risalgono a 1930 e 1950, quelli olimpici addirittura a 1924 e 1928, 8 Coppe America su 14 risalgono a prima del secondo conflitto mondiale, mentre per rintracciare l'ultimo trofeo in bacheca bisogna tornare al 1995. D'accordo, una nobile se non decaduta quantomeno un po' appannata. Ma pur sempre una nobile.
Complice un girone non impossibile ed un tabellone benevolo, non stupisce dunque ritrovare la Celeste fra le grandi del calcio, con la soddisfazione non da poco di essere la miglior squadra sudamericana al torneo, meglio di Brasile ed Argentina per intenderci. In quello che sembrava un raggruppamento quasi studiato su misura per far passare Francia e Sudafrica, l'Uruguay ha rovinato entrambe le feste, prima strappando un utile pareggio a reti bianche con i transalpini, poi massacrando i padroni di casa con un impietoso 3-0 firmato per due terzi Forlan, infine togliendosi la soddisfazione di battere anche il Messico, di misura con un gol di Suarez, e vincere il girone. Da lì in poi, il grande, grandissimo cuore uruguagio ha fatto la differenza nei momenti che contavano. Prima agli ottavi con la doppietta del solito Suarez, decisivo nello sbloccare il risultato dopo il pareggio sudcoreano, poi soprattutto ai quarti, nell'incredibile sfida col Ghana. Tocca a Forlan, autentico simbolo di questo gruppo, prendersi sulle spalle la squadra dopo il gol di Muntari. Lo fa nel migliore dei modi, insaccando una punizione impossibile. Il finale di partita è già storia. Al 121°, dunque a pochi secondi dai rigori, nel pazzesco batti e ribatti che si scatena nell'area uruguagia, Suarez, ancora lui, è sulla linea di porta e vede chiaramente che la palla sta per entrare. D'istinto si sacrifica, facendo l'unica cosa che va fatta. Un fallo di mano grosso così. Ma sacrosanto. Perché quella palla sarebbe entrata sicuramente, il rigore che ne segue forse no. Ed infatti Gyan, assurdamente, manda la palla sulla traversa, la partita finisce, si va ai rigori, ed il cuore uruguaiano ha di nuovo la meglio. E dopo 40 anni, è di nuovo fra le prime quattro.
La semifinale con l'Olanda è una sfida segnata, ma Forlan non ci sta e pennella un altro dei suoi velenosissimi tiri dalla distanza che il sonnacchioso Stekelenburg si lascia sfuggire. Finisce 3-2 per l'Olanda, ma l'Uruguay esce a testa non alta, altissima. Un po' di sfortuna con la Germania relega la Celeste al quarto posto, ma Forlan fa in tempo a segnare la quinta marcatura personale. Non stupisce, dunque, che vada a lui il titolo il Pallone d'Oro di miglior giocatore del torneo. Uomo squadra, goleador sopraffino, assistman, trascinatore generoso, capitano senza fascia, professionista umile e corretto, legatissimo alla maglia. E, aggiungerei, forse l'unico che è stato in grado di capire come si segna una punizione col Jabulani.






BRASILE - Se questa squadra parte sempre col favore dei pronostici ma ha ottenuto "solo" 5 successi su 19 partecipazioni, un motivo ci sarà. Anche stavolta mi è sembrata, più che un gruppo affiatato, una collezione di primedonne messe assieme a forza. Si sa che questa squadra, quando è in vena, riesce a creare una sinergia di gioco che non lascia scampo ai rivali. Ma se non scatta nulla, le singole giocate di alcuni fuoriclasse possono garantire il primato nel girone ed il passaggio ai quarti contro il modesto Cile, ma niente possono alle prese con una macchina perfetta come l'Olanda. Il successo azzurro del 2006, è noto, dipese in larga parte anche dalla straordinaria coesione del gruppo. Ecco perché Dunga avrebbe dovuto lavorare un po' di meno sul campo ed un po' di più sullo spogliatoio.






ARGENTINA - Ancora una volta il mondiale dell'Albiceleste somiglia più ad una telenovela che ad un torneo di calcio. Dopo lo psicodramma delle qualificazioni, archiviate in una maniera che definire rocambolesca è senza dubbio un eufemismo, la squadra si deve confrontare con l'ingombrantissima ombra del suo CT. Straordinario motivatore ma discutibile selezionatore, oltreché tatticamente impreparato, Maradona, perennemente infagottato nel suo abito da cresima mafiosa, ignora deliberatamente alcuni dei principali protagonisti del triplete nerazzurro, lasciando a casa a guardare il mondiale in ciabatte davanti alla tv due centrocampisti incredibili come Cambiasso e Zanetti, ed impiegando col contagocce un bomber devastante come Milito, preferendo loro gente da prepensionamento come Veron o addirittura Palermo, uno che in Coppa America contro la Colombia, nel lontano 1999, riuscì a sbagliare tre rigori in una partita sola, non so se mi spiego.
Eppure, la tradizionale miscela di genio e sregolatezza argentina sembra funzionare. Nel girone, dopo il timido esordio con la Nigeria, nelle more che Messi si ricordi di essere Messi, ci pensa una sontuosa tripletta di Higuain a schiantare la Corea del Sud, mentre per il gran finale contro la solita sopravvalutatissima Grecia riesce ad andare in gol addirittura l'apparentemente rinato Palermo. In panchina Maradona sbuffa, soffre, suda, sbraita, gioisce, inveisce, sembra insomma vivere ogni momento in perfetto unisono con i suoi ragazzi. La formula sembra funzionare a meraviglia. Di Messi si continuano a non avere notizie, ma bastano (ed avanzano) una doppietta dell'ottimo Tevez ed un sigillo ancora di Higuain per abbattere un Messico non proprio irresistibile. Quando la situazione comincia a farsi interessante ed i dubbi sulle qualità di Maradona iniziano a diradarsi, e cioè in vista del quarto di finale con la Germania, l'Argentina semplicemente si dissolve. Pesano l'inconsistenza difensiva, l'età di molti giocatori, la presunzione di Messi che col Barcellona ha vinto tutto ma in nazionale vaga come uno spettro senza pace. La Germania va giù pesante e quattro mazzate ben assestate spezzano i sogni di Maradona. Ma chi poteva davvero pensare che potesse essere in grado di allenare una nazionale uno che, quando c'era da risolvere la situazione, faceva tutto da solo perché semplicemente non aveva bisogno dell'aiuto dei compagni?






GHANA - Checché ne dica Shakira, non è stata nemmeno questa la volta buona per l'Africa. Se il Sudafrica è riuscito ad entrare negli annali unicamente per il record negativo di essere, nella storia dei mondiali, la prima rappresentativa padrona di casa a venire eliminata al primo turno, con la sola magra consolazione di aver avuto ragione, nella terza partita, di una Francia più che agonizzante, quasi nessuna delle altre ha saputo fare molto di meglio. Quattro punti per la Costa d'Avorio, mai realmente in grado di impensierire Brasile e Portogallo, appena uno per Nigeria ed Algeria, quest'ultima se non altro capace di bloccare sullo 0-0 l'asfittica nazionale inglese, addirittura nessuno per il Camerun. Per non parlare dell'enigma della nazionale egiziana, che ha dominato le ultime tre edizioni di Coppa d'Africa, permettendosi anche di sorprendere gli azzurri in Confederations Cup l'anno scorso, ma da Italia '90 non mette piede ai mondiali.
Unica eccezione il Ghana, capace di districarsi molto bene in un girone insidioso, raccogliendo di fatto il tifo dell'intero continente in quanto unica rappresentativa africana rimasta in gioco nella fase ad eliminazione. Superata un po' a sorpresa la Serbia, con un rigore di Gyan quasi allo scadere, e pareggiato poi il vantaggio australiano grazie ad un altro rigore di Gyan, il Ghana può permettersi di perdere con la Germania, aiutata dal contemporaneo successo dell'Australia sulla Serbia. Più ostica la sfida con gli Stati Uniti, ma a risolvere la partita ai supplementari ci pensa, guarda un po', Gyan.
Il quarto di finale con l'Uruguay è un appuntamento con la storia. Mai infatti un'africana è arrivata in semifinale: nel '90 il Camerun di Milla si dovette arrendere all'Inghilterra dopo essere stato addirittura in vantaggio, nel 2002 il debuttante Senegal fu invece purgato da un golden goal turco. Stavolta le cose sembrano diverse perché al 121°, sul punteggio di 1-1, il Ghana si procura un ineccepibile rigore. A chi affidare il delicato compito, se non allo specialista, nonché capocannoniere? Gyan spiazza Muslera, ma lo fa sparando un missile sulla traversa. Fallita l'incredibile occasione si va ai rigori, ed assurdamente il primo a tirare è proprio Gyan. Che stavolta va a segno, ma non basta perché Muslera ai rigori si esalta e ne para due. L'appuntamento con la storia è rinviato anche stavolta.






INGHILTERRA - Nemmeno la "scandalosa" decisione di affidarsi ad un tecnico straniero, per di più, orrore degli orrori, italiano (!), è servita per fare il salto di qualità. L'Inghilterra, terra di nascita del calcio, tra tutte le nazionali iridate è quella che ha vinto meno: un unico trofeo, un'impolverata Coppa del Mondo vecchia ormai di 44 anni; e poi nulla più. Persino Francia e Spagna hanno una bacheca più ricca, con due europei ciascuna (e la Francia anche un titolo olimpico, se vogliamo dirla tutta). Per curioso che possa sembrare, la nazionale più antica del mondo è anche una di quelle che hanno vinto meno.
Eppure, assolutamente incurante dell'enorme fardello che tutto ciò comporta, Capello si è prodigato, assai poco prudentemente, in proclami strafottenti sui grandi risultati cui avrebbe condotto la squadra. Caricando di aspettative esagerate una nazione di poveracci che hanno vinto l'unica coppa quando ancora si chiamava Coppa Rimet. Poveracci davvero: dopo la papera di Green contro gli USA, lo 0-0 con l'Algeria ed il successo striminzito sulla Slovenia, il primato nel girone è andato agli americani, obbligando l'Inghilterra ad un ottavo suicida con la Germania. Insomma, tutto quello che doveva essere evitato. E sappiamo tutti com'è finita; c'è chi recrimina ancora per il gol fantasma, ma perdere 4-1 o 4-2 che differenza fa?
Il punto è che Capello secondo me si sarebbe dovuto dimettere. Non per la stranita presa con la Germania, ma per non aver saputo evitare di incontrarla vincendo il girone, com'era suo preciso dovere. Anche perché per un inglese vedere la sua nazionale arrivare seconda dietro gli Stati Uniti è troppo. Davvero troppo.






PORTOGALLO - Non pervenuto. Due scialbi 0-0 con Costa d'Avorio e Brasile inframezzati da un esagerato 7-0 con la Corea del Nord, poi un pasticcio nel derby iberico contro una Spagna tutt'altro che irresistibile. Manca completamente la leadership di Cristiano Ronaldo, insopportabilmente arrogante, con l'aria di uno interessato più a fare il modello che a giocare a calcio, e quasi scocciato di dover indossare la fascia di capitano.
Mi manca uno come Luis Figo, un gentiluomo che segnava, faceva segnare e sapeva guidare la squadra in ogni momento senza montarsi mai la testa. E manca tanto anche al Portogallo.






ITALIA - Del tracollo azzurro si è detto e scritto di tutto. Anche troppo, direi. Noi italiani abbiamo il difetto nazionale di umiliarci sempre in maniera esagerata quando le cose non vanno per il verso giusto, esaltando poi gli stranieri quando fanno qualcosa che funziona anche solo un po' meglio di come la facciamo noi. Ma basta dare una rapida occhiata per accorgerci che la storia dei mondiali è piena quanto basta di illustri eliminazioni al primo turno. E' capitato all'Inghilterra nel '58, all'Uruguay nel '62, all'Argentina nel '58 e nel '62, alla Spagna nel '62, nel '66, nel '78 e nel '98, alla Francia nel '66, nel '78, nel 2002 e poi proprio quest'anno, al Portogallo nell'86 e nel 2002, è capitato anche al Brasile del '66 (eh già, proprio quello di Pelè...). Insomma, capita. Non è né una giustificazione né un alibi, ma capita.
Se ancora non siete convinti, lasciate che vi faccia alcune semplici domande. Dov'era l'Argentina nel '54 e nel '70? Dov'era la Francia nel '62, nel '70, nel '74, nel '90 e nel '94? Dov'era l'Inghilterra nel '74, nel '78 e nel '94? Dov'era la Spagna nel '54, nel '70 e nel '74? Dov'era l'Olanda nel '54, nel '62, nel '66, nel '70, nell'82, nell'86 e nel 2002? La risposta è la stessa per tutte le domande, ma nondimeno è sorprendente. Erano tutte a casa, perché non si erano qualificate. Noi invece c'eravamo, perché ci siamo stati praticamente sempre. 17 volte su 19, come la Germania. Solo il Brasile ha saputo fare di meglio. Vi sembrerà poco, a me sembra molto.
Senza fare drammi, quindi, va preso atto del fatto che Lippi è riuscito nella singolare impresa di far disputare all'Italia il suo migliore ed il suo peggiore mondiale. Tant'è, il trionfo del 2006 è un ricordo un po' appannato ma ancora sufficientemente fresco per ripartire da lì, come spirito e mentalità. Gli uomini per (ri)costruire la squadra ci sono, e se ancora non ci sono verranno fuori. Io continuo a credere nella regola dei sei anni. Da Spagna '82 ad oggi, se ci fate caso, l'Italia ha sempre disputato un ottimo torneo ogni sei anni: campione del mondo nell'82, semifinalista europea nell'88, vicecampione del mondo nel '94, vicecampione d'Europa nel 2000, campione del mondo nel 2006. Abbiate fiducia, uscirà fuori qualcosa di buono anche con Prandelli, speriamo proprio quest'europeo che ci manca da un po'.






FRANCIA - Chiudiamo in bellezza con la Francia, in grado (e non era facile) di chiudere il girone con meno punti dell'Italia: 1 a 2. Niente male per due squadre che solo quattro anni fa si giocavano il titolo. Va detto che il girone dei bleus era sulla carta più complicato del nostro, ma a conti fatti risulta davvero difficile aggiungere qualcosa di più su una nazionale che invece di giocare ha passato tutto il tempo a litigare. Con Domenech nei panni di insopportabile demotivatore si è arrivati all'assurdo di vedere la squadra ammutinarsi e rifiutarsi di scendere in campo per l'allenamento. Uno spettacolo raccapricciante, insomma, e senza dubbio meno edificante del nostro. Continuo solo a farmi una domanda, che non avrà, credo, mai risposta. Ma perché Domenech non fu cacciato via già due anni fa?

martedì 6 aprile 2010

Il Presidente era salvo

Il raggio lo colpì di striscio, smaterializzandogli un lembo dell’uniforme. Trovò riparo in una nicchia e si preparò al contrattacco. Sportosi in cerca del nemico, notò con disappunto i suoi gradi bruciacchiati e impolverati al suolo. Accecato dalla rabbia scagliò un masso nell’oscurità, poi ritrovò la freddezza e si acquattò nell’ombra, dove riprese a maledire quella schifosa guerra che da ormai sette cicli devastava il pianeta.
La luce rossa cominciò a lampeggiare nella penombra. Lentamente uscì dal torpore, e si ritrovò disteso nel termogiaciglio, ancora turbato dall’incubo appena concluso, malgrado fosse ormai da tempo abituato a rivivere quasi ogni notte le drammatiche vicende che gli avevano fruttato due ferite, cinque decorazioni al merito, la morte del suo migliore amico ed un decisivo avanzamento di carriera presso lo Stato Maggiore dell’Astronautica Militare Confederata.
Raggiunse a grandi balzi il plasmaschermo, dove si materializzarono all’istante i lineamenti insolitamente accigliati di Ykhskmyr Nadjknjw Pənler III, al suo secondo mandato come Presidente della Giunta Esecutiva Confederata. Detestava in modo genuino la sua mediocrità politica, l’accolita di illustri imbecilli di cui si era circondato, le penose battute con cui tentava di procacciarsi la simpatia dell’opinione pubblica; era peraltro convinto che il disprezzo fosse assolutamente reciproco, ma nondimeno gli si rivolse con il tono che più si addiceva al Comandante Supremo dell’Esercito Confederato: «L’Esercito saluta Sua Eccellenza Ykhskmyr III. Ai Suoi ordini».
Contrariamente alle sue previsioni, il Presidente non rispose con la formula di rito, ma lo fissò severamente: «Non c’è tempo per le formalità, Generale Kkhemz. Mi raggiunga subito all’astroporto militare. A quanto pare non siamo soli nell’universo».
Nessuna traccia della sua abituale strafottenza.
Mentre sfrecciava sull’aviostrada 75, ripensò turbato alle parole del Presidente. Da almeno trecento cicli si erano concluse le missioni esplorative nelle galassie limitrofe, e tutte le sonde avevano dato esito negativo. Adesso, invece, era stato individuato dai rilevatori un oggetto ignoto diretto verso il pianeta. Gli elaboratori ne avevano automaticamente calcolato la rotta, ed avevano stabilito con certezza che doveva essere partito da uno dei nove planetoidi che orbitavano intorno alla stella Elos IX. Possibile che una navicella aliena potesse venire da così lontano? Eppure gli elaboratori non avevano mai sbagliato. Almeno sinora.
Sfrecciò incurante attraversò tre o quattro ologrammi pubblicitari ed approdò nel vasto parcheggio. Fu ricevuto sbrigativamente da Zhhekll Poelh Sehkhs Jhagr V, Comandante dell’astroporto. Un tipo in gamba, che arrivò subito al punto: «Da circa sei cicli teniamo sotto
controllo quest’oggetto, ma non abbiamo mai diffuso la notizia per precauzione. Ora si è inoltrato nella nostra atmosfera e siamo in grado di stabilire con assoluta certezza che si tratta di un veicolo alieno che ospita forme di vita intelligente».
Il Generale lo fissava senza parole. Zhhekll continuò imperturbabile: «E’ evidente che la navicella sta facendo rotta verso il nostro pianeta. Per questo abbiamo ritenuto indispensabile avvertire il Presidente...» l’imbecille, sinora rimasto in silenzio, lo guardò fiero, come se fosse tutto merito suo «...e l’esercito».
Ykhskmyr prese allora la parola: «Il Comandante mi ha informato che la navicella atterrerà sul nostro pianeta tra circa sei frazioni e un terzo. Generale Kkhemz, non potrà che essere lei ad incaricarsi di adottare le misure di sicurezza necessarie».

Mentre si avviava con andatura solenne nella piana afosa, il Generale Kkhemz Ogrjje Bvjwjjkh XI non sapeva se maledire di più gli alieni, che avevano scelto per l’atterraggio una delle regioni più calde del globo, o quell’idiota del Presidente, al suo fianco con il suo solito atteggiamento da protagonista, che aveva rivelato in mondovisione la notizia, attirando sul posto centinaia di giornalisti, cialtroni e sprovveduti. Mentre si avvicinava allo strano razzo, non poté fare a meno di notare che dalla forma sembrava più una confezione termoisolante di minestra Krajhsc che una navicella spaziale; per la verità se l’era immaginato molto più grande. La sua sorpresa crebbe quando si aprì uno sportello alla base del mezzo e ne vennero fuori due piccoli mostriciattoli: quelli erano dunque gli alieni? Osservò il loro modo ridicolo di avanzare e la forma buffa del loro corpo, racchiuso in una specie di armatura metallica, e pensò divertito a chi aveva profetizzato la venuta di esseri giganteschi e sanguinari: non riusciva ad immaginare degli esseri più impacciati ed inoffensivi...
Si irrigidì di colpo: uno degli alieni si era fermato, aveva accostato le due zampe superiori alla sommità della sua tuta e con un gesto insospettabilmente rapido ne aveva staccato la protuberanza superiore, sollevandola. Kkhemz non perse tempo: si trattava certamente di un’arma e lui aveva il preciso dovere di proteggere il Presidente, a qualunque costo. Con un balzo si avventò coraggiosamente sui due invasori, e li rese rapidamente inoffensivi. Si accorse quasi subito di averli uccisi, ma non provò alcun rimorso: era evidente che si trattava di esseri inferiori.
Osservò disgustato il liquido rossastro che ora bagnava le loro armature, fracassate in più punti, ed i loro miseri e squallidi corpi, orribilmente rosei e con appena quattro zampe.
Una per una, abbassò le otto chele, soddisfatto. Anche stavolta aveva fatto il suo dovere. Quell’idiota del Presidente era salvo.

mercoledì 6 gennaio 2010

Pizzette amare - Piéce teatrale in due atti

ATTO PRIMO



Londra, atrio della Victoria Station. Un luminoso pomeriggio di metà Settembre.

Personaggi:

ROBERTO - Il protagonista, un giovane collaboratore dell'Italian Cultural Institute di Londra.
IL BERGAMASCO - Un giovane passante.

Si apre il sipario. Roberto è intento a distribuire brochure ai passanti, molti dei quali tirano dritti senza mostrare interesse.
Entra il Bergamasco.

BERGAMASCO (avvicinandosi a Roberto) Ma tu sei italiano?
ROBERTO Sì.
BERGAMASCO E lavori per...?
ROBERTO L'Istituto di Cultura Italiana.
BERGAMASCO (curioso) Sarebbe?
ROBERTO E' l'ente ufficiale per la promozione della cultura italiana all'estero. E' una struttura che dipende dal Ministero degli Esteri.
BERGAMASCO E quindi tu lavori per loro.
ROBERTO (un po' a disagio) Sì, insomma, sarò qui per tre mesi per fare uno stage...
BERGAMASCO Ma ti pagano? Ti danno qualcosa?
ROBERTO (amareggiato) No... Sai, la pubblica amministrazione italiana non paga quasi mai.
BERGAMASCO (ridacchiando con l'aria di chi la sa lunga) Ma sì, io me ne sono scappato dall'Italia guarda, non è per dire Berlusconi o non Berlusconi, è che ora come ora non c'è proprio nulla da fare, voglio dire, io vengo dalla provincia di Bergamo e guarda, del lavoro che mi piacerebbe fare a me non ce n'è proprio, non è un discorso politico, ma le leggi, il sistema, è tutt'un casino, non ci sono spazi. Londra invece è diversa, nel senso è una città grande, tante cose da fare, posti, c'è vita, e poi offre veramente delle opportunità di lavoro straordinarie guarda...
ROBERTO (cordiale) Ah bene. Tu che lavoro fai?
BERGAMASCO (indicando fiero intorno a sé) Io lavoro qui. Pulisco i cessi della stazione.
ROBERTO (perplesso) Ah... Beh...
BERGAMASCO Beh, certo insomma, non è granché, però insomma lo stipendio è buono, e poi il primo lavoro che trovi è sempre un po' schifoso, ma giusto il tempo di ingranare poi ne cerco un altro.
ROBERTO (rassicurato) Ah, quindi sei qui da poco...
BERGAMASCO Sei mesi.
ROBERTO (di nuovo perplesso) Ah...
BERGAMASCO E tu invece? Da quanto sei qui?
ROBERTO Mah poco, saranno un paio di settimane.
BERGAMASCO Vedrai che ti troverai benissimo guarda. Di dove sei?
ROBERTO (orgoglioso) Roma.
BERGAMASCO (facendo una smorfia) Ah, Roma. Beh immagino che anche per te è stato un bello shock venire in una città come Londra, così grande, la metropolitana... Voi a Roma quanti siete? Quasi un milione, giusto?
ROBERTO (incredulo) Ma veramente quasi quattro...
BERGAMASCO (arrampicandosi sugli specchi) Beh qui comunque sono dodici milioni considerando tutta la Greater London, non so se mi spiego.
ROBERTO Lo so. Infatti vivendo in una grande città ero curioso di conoscere una città ancora più grande.
BERGAMASCO (cambiando discorso) E come ti sei sistemato?
ROBERTO Ho preso una stanzetta a Turnpike Lane, in terza zona, piccolina ma comoda, poi ho la metro proprio sotto casa.
BERGAMASCO E quanto paghi?
ROBERTO 120 sterline a settimana, tutte le spese incluse.
BERGAMASCO (ridacchiando, di nuovo con l'aria di chi la sa lunga) Non ci posso credere! Ma lo sai che ti stanno fregando?
ROBERTO (impassibile) E' possibile. Ma non avevo molto tempo per scegliere. Appena ho trovato una casa ordinata, comoda e ben collegata l'ho presa.
BERGAMASCO Ma è troppo per quella zona, non capisci.
ROBERTO Vabbè, ma ho tutte le spese incluse. E poi i coinquilini sono tutti europei, e la mia priorità era evitare di ritrovarmi in una casa piena di asiatici che cucinano cose puzzolenti.
BERGAMASCO Non vuol dire. Un mio amico ha preso casa qua dietro, in prima fascia, paga 70 sterline a settimana e sta con due francesi che sono pure fighe!
ROBERTO (impassibile) Beh, buon per lui. A me comunque per tre mesi va bene così.
BERGAMASCO Come preferisci. Beh, si è fatto tardi, devo andare.
ROBERTO (ipocrita) Beh, è stato un piacere. Sentiamoci dai, magari ci prendiamo una birra una di queste sere.
BERGAMASCO (evitando di tirare fuori il cellulare per segnarsi il numero) Certo. Tu fino a quando rimani?
ROBERTO (evitando di tirare fuori il cellulare per segnarsi il numero) Metà Dicembre. Tre mesi ancora.
BERGAMASCO E poi rientri fisso in Italia?
ROBERTO Sì, almeno per un po'.
BERGAMASCO (allontanandosi) Beh salutamela tu allora. Io non ci torno mica, in Italia. Ciao. (esce)
ROBERTO (fra sé e sé) Ma chi te ce vole...

Sipario.

----------

ATTO SECONDO



Roma, via dei Magazzini Generali, interno di una cornetteria. Notte fonda di un pigro Giovedì di metà Dicembre.

Personaggi:

ROBERTO - Il protagonista, appena rientrato da Londra.
MARCO - Il cornettaro.

Si apre il sipario. Marco è al bancone intento a servire i clienti.
Entra Roberto di buon umore.

MARCO Ciao caro...
ROBERTO Ciao bello, come va? Mamma mia quanto me sei mancato, oh...
MARCO (stupito) Io te so' mancato? Casomai i cornetti!
ROBERTO (insistendo) Vabbè ma come li fai te non li fa nessuno...
MARCO Ma 'ndo sei stato che c'avevi tutta 'sta nostalgia?
ROBERTO Eh, so' stato tre mesi a Londra.
MARCO (quasi indignato) A Londra? Eh beh allora ce credo, là mica sanno come se magna! Ma a fa' che? Studià o lavorà?
ROBERTO A lavorà, diciamo così, va. E comunque sì, a magnà là non è che sia proprio il massimo. Oddio piano piano stanno migliorando eh...
MARCO (indignato per davvero) Ma che stanno a mijorà! Quelli da magnà nun so boni a fà gnente, guarda. (cambiando tono) Che prendi?
ROBERTO Cinque pizzette, ovviamente.
MARCO (porgendogli il sacchetto) Eh lo sapevo, sempre co' ste pizzette te...
ROBERTO (posando un euro sul bancone) E so bone...
MARCO E sì che so' bone. A Londra queste mica le trovi!
ROBERTO (annuisce mentre mangia una pizzetta) E certo.
MARCO (sempre più convinto) Gl'abbiamo insegnato tutto noi, a quelli. Come se magna, come ce se veste, come se gioca a pallone...
ROBERTO Beh però il calcio l'hanno inventato loro, dai.
MARCO Sarà, però se so' presi 'n allenatore nostro!
ROBERTO In effetti...
MARCO A proposito, ma te a Londra 'ndo lavoravi?
ROBERTO All'Istituto di Cultura Italiana...
MARCO (lo interrompe fiero) E lo vedi che c'ho ragione io?

Sipario.

martedì 3 novembre 2009

The Italian breakfast

Qualche tempo fa ho sgranato gli occhi trovandomi sotto il naso su Facebook il gruppo "Vogliamo Starbucks in Italia". Davvero paradossale. Viviamo nel paese dove probabilmente si mangia meglio al mondo, dove probabilmente si beve il caffè più buono del mondo e dove lo si paga la metà o anche un terzo di quanto costa all'estero, eppure centinaia di persone sentiono la necessità di pagarlo 3 € e berlo in un bicchierone di plastica. Un tipico esempio di esterofilia esasperata, ho pensato, il difetto genetico nostrano che periodicamente ci spinge a pensare che tutto quello che proviene dall'estero è meglio che in Italia. Stavolta però si trattava di una delle cose che sappiamo fare meglio, il caffè, quindi la questione era quantomeno curiosa e meritava di essere studiata.
Leggendo su Wikipedia, scopro che, secondo la leggenda, il mito di Starbucks nasce nel 1983, in occasione di un viaggio a Milano di Howard Schultz, amministratore della catena. A quanto pare, Schultz fu talmente colpito dal clima amichevole e conviviale che si respira nei bar italiani, da decidere di provare a riprodurre questo approccio gestionale nelle sue caffetterie. A prescindere se vi sia riuscito o meno, il tentativo si rivelò giusto, tanto che oggi l'impero di Starbucks conta oltre 9.000 sedi in mezzo mondo, e forse anche di più.
Saggiamente, tuttavia, il buon Schultz si è guardato bene in tutti questi anni dal mettere piede in Italia. Le motivazioni sono espresse chiaramente in un articolo linkato nella medesima pagina di Wikipedia: "Agli Italiani non piacciono le tazze di plastica. Perché? Essi non considerano neanche la possibilità di prendere il caffè fuori dal bar, bevendoselo mentre camminano o guidano". Senza contare, aggiungerei io, che il caffè di Starbucks, oltre a non essere carico come piace a noi italiani, costa circa 4 volte tanto. Il che, per un popolo che mediamente consuma 4 tazzine di caffè a testa al giorno, è tutt'altro che irrilevante.
Eppure, a smentirci parzialmente entrambi, ci sono oggi quasi 3.000 persone che su Facebook, divise in 3 gruppi, inneggiano all'avvento della sirena verde nel belpaese. Il più nutrito, quasi 2.000 iscritti, stila un decalogo di buoni motivi: fra gli altri, "è giovanile", "è alla moda", "è un mix di sensazioni uniche: è intimo ma allo stesso tempo internazionale", "ha poltrone comode", e poi "il caffè è differente da quello nostro ma non per questo fa cagare anzi è buono". Quest'ultima frase è piuttosto inquietante, ma tanta insistenza mi convince comunque a mettere alla prova le virtù di Starbucks.
Quale occasione migliore del mio imminente soggiorno di lavoro a Londra? La mattina dopo il mio arrivo, entro nel primo Starbucks che trovo per fare colazione. La scelta è necessariamente casuale, visto che si tratta di un esperimento su una catena in franchising devo ovviamente dare per scontato che la qualità sia la stessa in qualsiasi punto vendita. Con davanti a me la prospettiva stimolante ma impegnativa di 3 mesi di lavoro e vita a Londra, ordino un cappuccino ed una fetta di dolce, pago un conto salatissimo, dopodiché tiro fuori il netbook per controllare la posta su internet.
Subito una brutta sorpresa: la connessione non è affatto gratuita, come mi avevano assicurato tutti, ma costa la bellezza di £ 8,00 al giorno! Provo a consolarmi con il dolce, che è gustoso ma ha ahimé la consistenza di un foratino. Bevo un sorso di cappuccino e mi ustiono la lingua, per di più è amarissimo, ci verso dentro tonnellate di zucchero ed aspetto un po', ma non diventa né più freddo né più dolce. Purtroppo non ho ancora tempo per aspettare (siamo a Londra e si va di fretta!), così a malincuore sono costretto a lasciare sul tavolo quel beverone infernale ed uscire. Partiamo proprio male.
Nel pomeriggio chiacchiero con mia cognata, che mi chiede le mie prime impressioni inglesi e mi suggerisce di dare a Starbucks una seconda possibilità: "E' chiaro che non si può pretendere che il cappuccino sia buono come quello italiano, semplicemente devi andare lì e lasciarti coccolare". D'accordo, proverò a farmi coccolare.
Qualche tempo dopo mi capita di fare un giro in centro con un'amica e decidiamo di fermarci a prendere un caffè. Neanche lei è rimasta molto convinta da Starbucks, ma decidiamo insieme di provare un'altra volta. Entriamo e ci troviamo davanti una fila epica, almeno trenta persone sono in coda per ordinare. Dopo dieci minuti buoni riusciamo a guadagnare la cassa ed ordinare un paio dei tanto decantati frappuccini. Il cassiere abbozza un sorriso, afferra un paio di bicchieroni di plastica trasparente, ci scarabocchia su qualcosa con un pennarello viola e li passa alla collega. Decisamente spoetizzante, non trovate? La collega riempie i bicchieroni ma fa qualche pasticcio e mi dà un frappuccino sbagliato. Potrei farglielo notare, ma perderei altro tempo e rinuncio. Facendoci largo nella foresta umana riusciamo a guadagnare il piano di sopra e ci lanciamo alla ricerca di un tavolo libero. Sono tutti sporchi e pieni di cartacce, e la cosa mi irrita ulteriormente: d'accordo che siamo a Londra, la patria degli zozzoni, ma io pretendo la mia dose di coccole.
Ci sediamo al tavolo meno indecente, ed immediatamente mi accorgo che ho tutta la mano destra sporca di pennarello viola. Stupido commesso, che non sai neanche passare le ordinazioni a voce!
Finalmente assaggio questo tanto decantato frappuccino. Com'è? E' buono, certo. Ma ci mancherebbe pure che non lo sia, considerando che mi è costato £ 4,00! Di coccole, però, neanche l'ombra. L'esperimento è concluso: considerando che frappè buoni come questo, ed anche migliori, in Italia già li facciamo, per conto mio non c'è alcuna necessità che Starbucks apra anche da noi.
In compenso, nel frattempo scopro l'esistenza di Caffé Nero, una catena inglese di caffetterie la cui diffusione a Londra è persino più capillare di quella di Starbucks. E la cosa più divertente è che, stando alle dichiarazioni di intenti di Schultz, Caffè Nero è esattamente ciò che Starbucks sarebbe dovuto essere ma senza riuscirci: la riproposizione, imperfetta ma apprezzabilissima, di un bar italiano. L'espresso è godibile e viene servito rigorosamente in tazzine di ceramica, ci sono persino croissant e fagottini al cioccolato. E nel momento in cui scopro che ad ogni cliente danno una carta su cui mettono un timbro per ogni caffè, e che ogni 9 caffè il decimo è gratuito, sono fidelizzato per sempre!
Prendo quindi l'abitudine di fare colazione al Caffè Nero vicino casa. Quando le due bariste italiane scoprono che sono loro connazionale diventano se possibile ancora più gentili, addirittura mi mettono ogni volta due timbri anziché uno. E finalmente mi rendo conto di qual è il valore aggiunto del caffè italiano, ciò che aveva colto anche Schultz senza però intuire che non è affatto semplice riprodurlo in serie, semplicemente aprendo una catena in franchising: il barista.
Il caffè al bar è buono non solo perché è buono, ma perché lo serve una persona simpatica, con la quale fare volentieri due chiacchiere, parlare di sport o politica, lamentarsi, chiedere consigli, persino sfogarsi. Il bravo barista sa che, oltre a dover preparare un ottimo caffè, deve diventare un vero e proprio punto di riferimento per il cliente, una figura quotidiana, familiare, persino autorevole.
Poco prima di venire a Londra, durante una delle ultime settimane di lavoro a Roma, ero sceso a fare colazione al bar dell'ufficio come ogni giorno. Di solito avevo l'abitudine di fare colazione un po' tardi, verso le 11 e mezza, ma quel giorno avevo fatto davvero tardi. Non mi ero accorto che era l'una passata ed avevo ordinato come sempre cappuccino e cornetto alla crema. Immediatamente il barista, bonario ma determinato, mi aveva rimproverato: "Ma che ti sembra l'ora del cappuccino questa? Non sei mica un turista americano!". Aveva ragione. Da buon romano, mi ricordava che il momento giusto per prendere un cappuccino è la mattina, prima dell'una. Il cappuccino a pranzo lo lasciamo prendere a qualcun altro. La cosa interessante è che lui dava per scontato, giustamente, che io conoscessi questa regola e che avessi per distrazione cercato di infrangerla, ma in ogni caso avrei desistito dal mio ignobile tentativo.
Così feci. Divertito, avevo ordinato immediatamente un caffè macchiato e gli avevo sorriso. Lui mi aveva servito il caffè compiaciuto, orgoglioso di avermi impedito di compiere un qualcosa di immorale. In qualche modo, aveva vigilato sulla mia coscienza gastronomica, ciò che ogni vero barista dovrebbe essere in grado di fare.
Se domani pomeriggio andassi da Caffè Nero a chiedere un cappuccino, quelle due deliziose ragazze mi guarderebbero storto, ed avrebbero ragione. Se facessi la stessa cosa da Starbucks, quei disgraziati mi servirebbero il cappuccino senza battere ciglio.
Ecco perché il caffè in Italia è più buono.

domenica 1 febbraio 2009

Amore cabriolet

Ciò che cantanti, poeti e fresconi sono soliti chiamare "amore" è in realtà un'acerrima e violentissima battaglia psicologica che l'uomo e la donna combattono l'uno contro l'altra ininterrottamente. La situazione è resa particolarmente complicata dal fatto che i rapporti di forza tra i due sessi sono costantemente squilibrati. Ma andiamo con ordine.

Fino a 12 anni si può dire che non esistono grosse differenze. E' proprio a quest'età tuttavia che si verifica la prima sperequazione: la donna ha una clamorosa impennata nel proprio sviluppo psicofisico e nel giro di un paio di mesi completa la sua trasformazione da bimbetta frignante in vamp senza scrupoli. L'uomo si accorge invece con amarezza di essere rimasto sostanzialmente un nanerottolo moccioloso ed è depresso perché le sue coetanee lo considerano, giustamente, un imbecille.

A 15 anni il divario è massimo. Mentre gli uomini continuano ottusamente a fare a scambio di figurine come quando erano alle elementari, le donne, almeno quelle più spigliate, maneggiano preservativi con la stessa confidenza con cui un croupier del casinò di Lugano muove le fiches alla roulette. Hanno storie con ragazzi più grandi e continuano a considerare i propri coetanei, giustamente, degli imbecilli. Tuttavia è proprio a quest'età che l'uomo prende finalmente consapevolezza del proprio essere un idiota, ed inizia un lungo e paziente lavoro su sé stesso.

A 18 anni la situazione è cambiata. L'uomo ha qualche storia con ragazze di qualche anno più piccole, ma fatica molto a capire il loro modo di ragionare. La donna invece ha conosciuto in discoteca un brillante studente universitario e ne approfitta per farsi scarrozzare avanti e indietro ogni volta che ne ha voglia.

A 20 anni il divario si allarga di nuovo. L'uomo scarrozza ora pazientemente una diciottenne ogni volta che lei ne ha voglia, ma continua a non capire molto riguardo al suo modo di ragionare. In particolare, non capisce perché dica delle cose e poi ne faccia altre, né riesce a spiegarsi perché a volte scoppi a piangere se lui le chiede cose semplici come mandargli qualche sms in meno. La donna invece ha liquidato lo studente ed ora esce con un trentenne che la viene a prendere in SLK.

A 25 anni c'è un periodo critico. La donna viene improvvisamente lasciata dall'uomo della SLK e fa le due cose che fanno tutte le donne che hanno appena concluso una storia di 5 anni: cambia pettinatura e si iscrive ad un corso di salsa. In discoteca si diverte a far credere agli sconosciuti di essere attratta da loro, solo per poter poi ridere insieme alle amiche della cosa. Di tanto in tanto riceve delle proposte indecenti da qualche facoltoso quarantenne, che a volte accetta.
L'uomo invece è disorientato: la sua ex lo ha lasciato per mettersi con un trentenne che guida una SLK e quasi tutte le donne che ha occasione di conoscere sono fidanzate da diversi anni. Ormai ha finalmente trovato lavoro ma vive al di sopra delle sue possibilità ed ogni mese butta mezzo stipendio offrendo aperitivi e cocktail a sconosciute che sembrano interessate a lui ma poi gli danno buca. Continua a non capirci molto delle donne ed in particolare non capisce per quale motivo si divertano così tanto a sembrare disponibili per poi dare due di picche a destra e a manca. Lui con i suoi amici non farebbe mai una cosa del genere, gli sembra una perdita di tempo.

A 30 anni c'è l'inatteso colpo di scena. Finalmente l'uomo si rende conto che è impossibile capire le donne e fa il definitivo salto di qualità: compra una SLK e va a caccia di ventenni.
La donna invece va semplicemente fuori di testa ed inizia ad essere ossessionata dall'idea di avere un figlio.

A 35 anni la donna si è sposata, ha avuto un figlio ed ha già lasciato il marito per mettersi con il suo capoufficio, che guadagna il doppio. L'uomo invece continua a non capire molto delle donne e, nel dubbio, continua a girare in SLK perché ha visto che tutto sommato funziona. Spende ancora una barca di soldi per offrire aperitivi e cocktail, ma almeno ora se lo può permettere.

mercoledì 23 luglio 2008

Vita da scapolo 2 - Un anno dopo

La situazione è pressoché identica a quella di un anno fa, ma le sensazioni sono molto diverse.
Ancora una volta padrone incontrastato della dimora familiare, ma stavolta non c'è nessuna attesa in vista di un'esperienza relativamente ignota in un paese relativamente inospitale, bensì una certa nostalgia nel ricordare i preparativi di un anno fa con la segreta consapevolezza che, in fondo, andavo a spassarmela. La nostalgia mi dà appuntamento quotidiano su Facebook, in assoluto il miglior modo mai inventato per farsi egregiamente gli affari degli altri, dove ogni giorno sfilano quei volti con cui ho condiviso quattro gioiosi mesi di delirio multiculturale, malgrado fossimo tutti lì ufficialmente per studiare. Sarebbe bello in effetti poter rifare tutto daccapo, ma avrebbe poco senso, essenzialmente perché non ho la benché minima intenzione di passare un altro autunno in Svezia per tutto il resto della mia esistenza.
Ma dopo la nostalgia si fa strada un'altra maligna considerazione: potranno spassarsela quanto vorranno, ma saranno sempre condannati alla loro vita di provincia, belga, tedesca od olandese che sia. Io invece con 20 minuti di macchina me ne vado al Colosseo, e scusate se è poco. Vogliamo mettere Roma con Gent? Vogliamo proprio?
E quand'anche l'Urbe venisse a noia, ecco pronto un viaggetto mid-cost a Barcellona (tiè): un must della vacanza agostana da italiani medi che finalmente, e ne sono fiero, sono riuscito ad organizzare dopo almeno tre anni di tentativi vani. Si parte il 6 Agosto, in compagnia di 4 amici di vecchia data.

Nel frattempo ne approfitto per crogiolarmi nella calura mediterranea dopo una sessione di performance estreme: eh già, perché visto che l'esperienza scandinava mi ha fruttato alla fine della fiera un solo esame, mi è toccato fare gli straordinari.
Sono cifre che fanno girare la testa: 39 CFU verbalizzati, 8 esami sostenuti, addirittura 3 orali nello stesso giorno! Per chi ama le statistiche, si tratta della miglior sessione di sempre.
Ne consegue che un po' di riposo è, se non dovuto, almeno meritato. Fortunatamente la vita fornisce continuamente numerose ocasioni di svago: tanto per cominciare, c'è da finire di vedere la quarta serie di Lost, operazione che viene svolta senza badare al dispendio di energie. E visto che Lost è una fiction di inaudita complessità, si passa subito ad organizzare serate a tema Lost coinvolgendo fan affermati ed amici scettici in maratone di 6 puntate alla volta, (ri)partendo rigorosamente dalla prima serie (e poi giù a rotta di collo fino alla quarta, senza soste) allo scopo di riordinare un po' le idee in vista di futuri sviluppi.
E quand'anche Lost fosse insufficiente, ecco comparire la scatola magica: Alice Home TV. Se neanche la mirabolante offerta di canali digitali in chiaro basta a stuzzicare la mente, non si può restare impassibili di fronte alle strepitose possibilità di scelta che offre la tv on demand: in particolare, 37 concerti e 47 cartoons della serie Looney Tunes, da vedere e rivedere, gratis, tutte le volte che ci pare.
E se a questo aggiungiamo le mirabolanti sperimentazioni gastronomiche che offrono i supermercati odierni, su tutte i nuovissimi Pan di Stelle Cereali (!), ne scaturisce una varietà di possibili combinazioni in grado di rendere la vita da scapolo semplicemente strepitosa.
Ad esempio: Coldplay + Pangoccioli; oppure, Gatto Silvestro + Pesto alla siciliana; oppure, Lost + Gocciole Extra Dark; oppure ancora, Willy il Coyote + Mentorzata; oppure, Franz Ferdinand + Pan di Stelle Cereali; o ancora, Rage Against The Machine + Pesto alla genovese.
E si potrebbe continuare...